31 gennaio 2018

Lettera di un oscuro giornalista a Philip Roth

Caro Philip Roth,

ho letto con passione la sua intervista con il New York Times, trovando ben più interessanti le parti sulla sua vita dopo la scrittura, piuttosto che i giudizi politici su Trump che hanno fatto titolo, ammirando comunque la precisione del paragone con il reale Charles Lindbergh divenuto presidente, a differenza del biondo magnate, solo nella storia letteraria. Ma più di ogni altra frase (e comunque quella sullo stupore di arrivare a sera ogni giorno è una specie di romanzo in poche parole che da sola vale il viaggio), devo confessarglielo, sono rimasto totalmente folgorato dalla fotografia che le ha scattato Philip Montgomery: un uomo anziano, ritratto quasi di spalle, con i capelli ancora lunghi, ma chiaramente provvisori, la schiena incurvata, la parete spoglia e, fuori dalla finestra, verso la quale però lei non guarda - non so se per stanchezza, pudore o malinconia - quella New York perfetta, inarrivabile e splendente come solo la pubblicistica interiore ci sa mostrare. Mi sono commosso, vuoi per la mia senilità incipiente, vuoi perché la fotografia fissa con precisione incurante uno dei luoghi cardine della sua letteratura, e della vita di tutti. Lei Roth, qui nei panni chissà quanto stravaganti dell’ex scrittore, è colto - come sempre accade con le buone immagini, perdoni la banalità del commento - esattamente sul punto non so se di varcare, ma certo di percepire una soglia, un passo apparentemente semplice e in realtà così definitivo, come ci apparirà quando, guardandoci indietro, ce ne ricorderemo.

(“Si presentarono i miei cinquant’anni - cantava il Buffalo Bill di Francesco De Gregori - e un contratto col circo”).

Non lo so quale sia questa soglia, non è importante definirla, quello che mi preme, quello che mi ha fatto sedere davanti al computer con un berretto di lana verde in testa, un berretto che ho usato solo a New York mille anni fa, è che in quella soglia mi ci sono adagiato pure io, mi ci sono sentito accolto, capito. Era una lanca di fiume fatta per ricevermi, una pagina sagomata con il mio profilo ingombrante e sgraziato. Era lì, come la porta della Giustizia di Kafka, solo perché io la spingessi e, ammiccando con il dovuto rispetto all’indecisione dei personaggi del buon Franz, stavolta l’ho fatto, proprio spingendo i tasti che danno forma a questa “lettera” che a lei, caro Roth, non si preoccupi, non spedirò.

La mia, di soglia, questa notte è lavorativa. Sono un giornalista che potrebbe vedere chiuso il suo giornale e perdere, in un sol colpo e per motivi che sono in gran parte bislacchi e in piccola parte fraudolenti - o così a me appaiono - il suo lavoro e un bel pezzo del suo mondo. Nel giro di pochi giorni, ma dopo una attesa che dura da troppo tempo, dopo uno stillicidio di ansia e di piccole vergogne, oltre che di continue sconfitte apparentemente trascurabili, alle quali ho però deciso di non voler più concedere la mia tristezza. Per questo le sto scrivendo, perché nessuno, alla fine, potrà battermi se io posso scrivere una lettera a Philip Roth, o meglio, mi batteranno lo stesso, ma io avrò la mia missiva, la mia soglia personale a cui guardare, come lei che, in quella foto, lo confessi, stava di sicuro scrutando uno specchio di Borges sul pavimento della casa della Grande Vecchiaia. Lo so, il mondo e i suoi accidenti non ci appartengono mai fino in fondo, però talvolta li riusciamo a distinguere e lei pure è riuscito a raccontarli. Non sto a dirle che cosa sia esploso nella mia testa di inesperto bibliotecario quando lessi per la prima volta, quasi clandestinamente durante le ore di lavoro, lI Teatro di Sabbath, o ancora il totale delirio che mi contagiò nelle settimane, poco tempo dopo, dedicate a Operazione Shylock. Non sto a dirglielo perché comunque, per quanto momenti straordinari, non sono o non vogliono essere il cuore di questa lettera. Il punto è la domanda che la soglia mi ha fatto sorgere: ma per un condannato a morte il rinvio della sentenza è un giorno in più oppure un allungarsi dell’agonia? Io so che lei, Philip, la risposta la conosce, ma so altrettanto bene che, per fortuna, non me la dirà. Ma, per favore, resti ancora un momento fermo come nella fotografia, a ricordarmi che, in ogni caso, tutto è sempre possibile.

Facendo il mio lavoro ho incontrato tanti scrittori, non penso di annoiarla con un elenco, solo citerei, cercando di stabilire delle contiguità, Aharon Appelfeld (fermato quasi clandestinamente in un corridoio a una Fiera del libro, lui che clandestinamente era stato fermato dall’incubo della Storia) e Norman Manea (con il quale invece mi sono seduto due volte nello stesso hotel a parlare di come la letteratura non ci salva, e chissà se aiuta). Poi, se volto la testa di trenta gradi a sinistra da questa scrivania vedo un autografo con dedica di Don DeLillo (è il frontespizio de La stella di Ratner, anche questo vorrà pur dire qualcosa, anche se adesso mi chiedo se sia successo davvero, se la prova scritta basti a renderlo reale) incorniciato sotto una mensola che ospita qualcosa di Primo Levi, ma quello è uno dei suoi intervistati.

Benché animato da una voglia di scrivere che da puerile è diventata negli anni qualcosa di più complesso, devo dirle che su di lei, Roth, ho a lungo rinviato il pezzo “importante” (almeno per me), ho girato intorno all’argomento, con qualche recensione controllata e poco appassionante o brevi accenni, magari buoni o persino buonissimi in qualche raro caso, ma dentro ad altre storie, mai soltanto sue. Eppure la relazione era così forte, così importante per me, da usarla come stilnovistico “uomo schermo” per parlare della mia New York in una specie di saggio dove ho provato a raccontare - fallendo naturalmente - quello che non si poteva raccontare, come per esempio la completa esperienza di attraversare di notte su un taxi il Manhattan Bridge (ogni volta che passiamo sul Manhattan Bridge - dice più o meno Ben Lerner nel suo stupefacente romanzo Nel mondo a venire - ricordiamo di avere attraversato il ponte di Brooklyn), oppure la temperatura assurda di un tè assaggiato con imprudenza e conseguente choc la mattina troppo presto in un bar di Carrol Gardens. Tanto che - dato che comunque si doveva fallire, allora perché non farlo alla grande - quando il mio racconto-diario è arrivato alla domenica nella quale sono realmente salito sul ponte di Brooklyn, non ho resistito e ci ho messo pure un incontro con Mickey Sabbath, “furtivamente osceno, con indosso una giacca a vento troppo larga, sbiadita, e in tasca ancora il ricordo delle mutandine dell’ultima conquista immaginaria”. Poi, aggiungevo, “sono certo di averlo sentito bisbigliare un commento ammirato sulle tette di una manifestante afroamericana particolarmente infervorata (il contesto era corteo di gruppi religiosi sul Ponte, ndr). E lei, perfettamente a proprio agio, le ha scosse con più entusiasmo, mentre intonava il ritornello di un Inno al Signore, guardando Sabbath dritto negli occhi”.

Capisce Philip, capisce che io, oggi che non ho idea di cosa succederà domani, oggi che penso che dovrei provare maggiore gratitudine, magari alcolica ma vera, nei confronti del tempo che ho vissuto finora, io dovevo scrivere a lei, non potevo fare diversamente, altrimenti sarebbe stato l’ennesimo spreco di un ricordo che invece adesso posso tenermi. E se lei baciava Jackie Kennedy in ascensore io, per lo meno, le ho rubato un paio di personaggi per qualche minuto (il secondo si chiama Franz Kafka, e, dai, lo ammetta, per rubare un personaggio con un nome tanto assurdo ci vuole un briciolo di fegato… in realtà ho rubato anche lei come personaggio, nello stesso racconto - peraltro dedicato a Nathan Zuckerman - ma senza mai chiamarla per nome, chissà se si tratta di un’attenuante o di un’aggravante).
Non sarà molto, ma è già qualcosa.

Anche perché, caro Roth, non è che io abbia solo preso dai suoi libri. Ok, è vero: ho preso parecchio, perfino una cotta per Madeleine, l’aspirante suicida alta e ingobbita che a 29 anni ne dimostra dieci, stando all’opinione di Sabbath, il quale, sia sempre benedetto il bieco Mickey, non per questo rinuncia a un tentativo di seduzione con due bottiglie di superalcolico (naturalmente il tutto accade in una clinica di rehab, come si dice oggi anche in Italia) e che si appunta la classificazione della felicità come “un disordine mentale”, seppure “di tipo piacevole” (io Madeleine la vorrei proprio sposare). Ok. E’ vero pure che mi sono lanciato a velocità folle dentro il dialogo tra il LUI e la LEI de Il fantasma esce di scena, tatuandomi direttamente nel modo di pensare frasi come “il dolore di essere presente nel presente”. Per non dire di Patrimonio e dell’idea stessa del rapporto padre-figlio e di tutte le altre noiose cose importantissime che ne conseguono nella vita, mia, di ogni giorno. Però, però. Qualcosa ho anche dato. Non rida, Philip, non sto parlando di articoli o pezzi più o meno stravaganti, con il New York Times mica posso competere, (megalomane sì, ma con juicio). Sto parlando di corpo, voce, un pubblico. Insomma, non sarò stato il primo, però anche io posso essere annoverato tra gli intrepidi satanassi che hanno osato declamare ad alta voce, e in un paio di casi senza alcun preavviso, la celebre scoperta di Alexander Portnoy: “Tutte le ragazze che vede, salta fuori (tenetevi forte) che si portano appresso tra le gambe: un’autentica figa! Stupefacente! Sbalorditivo! Ancora non riesce ad abituarsi all’idea fantastica che quando stai guardando una ragazza, stai guardando qualcuno che, garantito, si porta addosso una figa! Tutte hanno la figa! Proprio sotto i vestiti”. E, le assicuro, che sguardi estatici in sala mentre l’eco dell’ultima frase ancora risuonava nei pressi del soffitto! Che climax di silenzio prima dell’esplosione della risata (sì, certo, qualcuno era anche perplesso e, ma guardi un po’ lei, una volta un tale si è perfino addormentato durante la mia performance sulla figa, si è addormentato! Che diamine). E la voce persa per provare a spiegare perché Portnoy è uno dei romanzi più disperati e commoventi sull’amore familiare e come sia evidente che Zuckerman è reale, tanto che una volta sul palco ho pure portato l’autore di Carnovsky in carne e ossa (e lo so che non era lei, Roth, per chi mi ha preso, per un imbonitore da fiera? E non era neppure il buon Nathan, il che rende il gioco metaqualcosa molto, troppo complesso. Però le giuro che quell’autore esiste e l’ho pure incontrato qualche sera fa in un bar di Milano, dove mi ha raccontato che finalmente è pronto il suo nuovo romanzo, “alla Roth”, giusto per rimanere in tema).
Santo cielo, adesso però questa lettera proprio non sta più in piedi.
Ce l’abbiamo fatta allora?

Caro Philip Roth,
il tempo stringe. Il mio, per chiudere questo pezzo, il suo per non doverne sprecare mai per leggerlo. Continuo a non sapere se il condannato stia godendo il giorno in più o se continui a torturarsi nell’attesa. Io ho deciso che le ore servite per scriverle questa missiva sono ore valide, ore buone, ore che avrebbero dato soddisfazione - non come esito, per l’amore del cielo, ma come applicazione - al buon vecchio Hemingway e anche, spero, a un amico che scrive meglio di me e che in un qualche modo sa tutto, anche se finge il contrario. Cosa succederà poi io non lo so, credo che non lo sappia nemmeno lei, Philip. E’ un buon punto di partenza per scriverle una lettera magari, tanto poi nessuno ci crederebbe, men che meno Roth. O no?

(Vi ho voluto bene, adesso vado)

(Arrivederci, amore, ciao. Le nubi sono già più in là).


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine 2018

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