27 dicembre 2018

La fine del mondo è già avvenuta: i libri da ricordare del 2018

L'articolo pubblicato su ArtsLife

“La fine del mondo è già avvenuta. Ciò che gli esseri umani hanno davanti agli occhi in questo momento è proprio la fine del mondo, determinata dagli iperoggetti”. Non è una citazione tratta da un libro di fantascienza (per lo meno non nel senso in cui siamo abituati a pensare la fantascienza, concetto che andrebbe forse ora riformulato, anche alla luce di libri come Annientamento di Jeff VanderMeer), ma da uno dei saggi filosofici più stimolanti, visionari e problematici che siano apparsi in Italia nel 2018: Iperoggetti, del pensatore britannico classe 1968 Timothy Morton, pubblicato nel nostro Paese da Nero edizioni. Un libro per lunghi tratti illuminante, che analizza come queste “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo” - gli iperoggetti, non umani e non conoscibili mai fino in fondo - influenzino da sempre la nostra vita e ora abbiano decretato la fine del mondo nel senso dell’idea di mondo, che per altro era già una problematica “antinomia della ragione” nella filosofia di Kant a fine settecento. Il più clamoroso caso di iperoggetto, e in un certo senso il punto chiave della riflessione di Morton, è il cambiamento climatico. Al netto di qualsiasi considerazione filosofica più o meno sofisticata - e benché pubblicamente Morton osteggi la visione di Kant, nei fatti è lui stesso a dare nuova linfa al concetto di noumeno, ossia la “cosa in sé” che né nell’idealismo tedesco, né in questa visione ipercontemporanea e post punk possiamo raggiungere - al netto di tutto ciò, resta un fatto: il cambiamento climatico è il Tema del nostro presente, e libri come Iperoggetti servono, oltre a molto altro, anche a ricordarci quanto sia impellente pensarlo (e ovviamente poi agire, ma senza pensiero non c’è azione) in modi nuovi. Perché se la fine del mondo è già successa, e in un certo senso anche Wim Wenders o qualunque scienziato specializzato in robotica ce lo possono confermare, noi siamo ancora qui. Aggiungo anche una piccola postilla: per chi ha amato i libri di VanderMeer appare anche chiarissimo che l’Area X della sua Trilogia di grande successo, altro non è che un iperoggetto divenuto materia di letteratura. Qui però dobbiamo fermarci, perché entrando nell’Area le regole cambiano completamente, ed è un’altra storia che racconteremo un’altra volta.

A fare in un certo senso il paio con Morton c’è un altro saggio sul nostro presente, questa volta inserito nel circuito mainstream dei bestseller internazionali, più accessibile e amato perfino da Bill Gates, che lo ha consigliato come regalo natalizio (in una lista di cinque titoli): sono le 21 lezioni per il XXI Secolo dell’israeliano Yuval Noah Harari, pubblicato in Italia da Bompiani. Una sorta di manuale del presente per macrotemi, che vanno dall’immigrazione alla religione, dal lavoro all’idea di civiltà. In tempi di slogan e odiatori, il libro di Harari ha il grande merito di usare una ragionevolezza  di stampo razionalista (anche ironica e autoironica, ma senza corrosività, come è giusto che sia in un libro da milioni di copie nel mondo) che gli permette di affrontare questioni globali e urticanti in modo, lo scrivo ma un po’ al tempo stesso provo imbarazzo, gentile. Ma la gentilezza, intesa in senso non solo di galateo ovviamente, è in fondo una delle chiavi per il cambiamento vero, che Harari con le sue lezioni sembra auspicare, prima che sia troppo tardi e gli algoritmi prendano il potere (sta già succedendo, anche in Italia, quindi non si sta parlando di qualcosa di altro o astruso). “Moralità - scrive Harari nella lezione 13. Dio - non significa ‘seguire precetti divini’. Significa ‘ridurre la sofferenza’. Per agire moralmente, non avete bisogno di credere in qualche mito o storia. avete solo bisogno di sviluppare una precisa percezione della sofferenza. Se davvero capite come un gesto possa provocare inutile sofferenza a voi stessi o agli altri, sarà naturale astenervi dal farlo”. Troppo facile? Forse, ma vale la pena di rileggerla più volte, questa frase, e poi pensarci un po’ su.

La non fiction, come accade da un po’ di anni, forse perché i suoi confini si sono comunque molto allargati e comprendono spesso oggetti che sono letterari a tutti gli effetti pur non essendo romanzeschi (il buon proposito di lettori e recensori per il 2019 potrebbe - tardivamente - essere quello di chiudere definitivamente con questa associazione esclusiva letteratura-romanzo). Uno di questi è il magnifico e spaventoso reportage di Mark O’Connell nel mondo del transumanesimo, del post umano, del “download del cervello”. Essere una macchina, che è uscito nella “Collana dei casi” dell’editore Adelphi, è un libro, come i due citati prima, molto contemporaneo, e anch’esso, come capitava con Timothy Morton, ci parla di qualcosa che sembra futuro fantascientifico, ma in realtà è solo il presente, in molti casi gli scenari che il giornalista descrive sono “già successi”, anche se a volte solo per una finora piccola comunità di adepti. Ma il post umano, la “vita” oltre la morte, sono oggetto di investimenti colossali dei protagonisti del Big Business e in molti luoghi che sembrano usciti dalla penna dell’ultimo Don DeLillo si trovano veramente le teste ibernate di persone che si sono fatte decapitare subito dopo la morte in attesa delle tecnologie che, prima o poi, permetteranno loro di risvegliarsi. Magari, e qui c’è probabilmente la parte più originale e inquietante del racconto di O’Connell, sotto forma di “altro”, sotto forma di software cosciente, senza più la soma del corpo. Ma sarà ancora vita? Sarà ancora umana?

Sempre in casa Adelphi e sempre nel terreno del ragionamento sulla coscienza e l’intelligenza, il 2018 ha portato in libreria un altro saggio difficile da trascurare: Altre menti di Peter Godfrey-Smith, dedicato alla cosa “più vicina all’incontro con un alieno intelligente che ci possa capitare”. Questa volta però la fantascienza (nella solita accezione un po’ scontata) non c’entra: gli alieni in questione sono seppie e polpi. Il libro, secondo volume della collana Animalia, è dedicato ai cefalopodi e alla loro via alternativa allo sviluppo cosciente e offre, da un punto di vista spesso filosofico, ma con moltissima interazione reale con gli animali, un avvicinamento al concetto vero di “alterità”. Oltre che una finestra capace di allargare le nostre prospettive e offrirci occhiali migliori per guardare a quello che, Morton e Kant ci perdonino, continuiamo a chiamare “il mondo”.

La non fiction come letteratura si diceva, e allora ecco la nuova raccolta di “idee, visioni, ricordi” di una delle scrittrici più importanti del mondo: Zadie Smith, che per Sur edizioni ha portato in Italia il suo Feel Free. Per capire di cosa stiamo parlando (e conviene ricordare, in quest’epoca di certezze assolute da sbandierare sui social ogni 18 minuti, che la precedente raccolta di non fiction della Smith si intitolava Cambiare idea), basta una piccola citazione: “A mio parere un vero ‘creativo’ non dovrebbe accontentarsi di soddisfare una domanda preesistente, ma dovrebbe modificare la nostra idea di ciò che desideriamo. Al cuore della creatività si trova un rifiuto. Perché un’opera veramente creativa evita sempre di vedere il mondo come lo vedono gli altri, o come viene generalmente descritto. Rifiuta le opinioni convenzionali e generiche: rinnova”. Bum. Mi vengono in mente le battaglie culturali del presidente della Biennale Paolo Baratta, che da anni insiste sul tema di ridefinire il desiderio, sia di arte sia di architettura. Insomma, quando c’è un’intelligenza mobile, e quella di Zadie Smith è mobilissima e diventa scrittura altrettanto imprendibile, tutto alla fine si tiene, in modo assolutamente precario se volete (parliamo pur sempre di cultura, suvvia), ma chiarissimo.

Chiudiamo questa ricognizione annuale nella non fiction, prima di riaprire la porta del romanzesco, con un’altra scrittrice, Michela Murgia, non per la sua battaglia contro il fascismo, bensì per un piccolo libro dedicato a un altro libro. Grazie all’intuizione editoriale di Chiara Valerio (la scrittrice italiana che se non ci fosse andrebbe subito inventata di nuovo), Marsilio ha creato la collana PassaParola e qui Murgia ha raccontato la propria scoperta de Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley, la versione al femminile (e al femminista) della storia di Re Artù. L’inferno è una buona memoria -  questo il titolo del racconto di lettrice della Murgia - è un oggetto minuscolo ma travolgente, intimo e accecante a tratti. Anche qui, arriviamo a vedere cose che prima non vedevamo (o forse facevamo finta di non vedere) e lo sguardo della scrittrice, impietoso in primo luogo con se stessa, è una guida che si fatica a lasciare.

Ultimissime note: all’insegna della contaminazione tra le forme di scrittura bisogna citare altri due titoli che sono difficilmente classificabili come genere. Il primo è Storia dello sguardo di Mark Cousins (Il Saggiatore), un viaggio multiforme dentro il nostro modo di guardare alle cose, alle persone, alla storia, all’arte, agli stessi nostri occhi. Il secondo è fresco di stampa ed è Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola (Adelphi): nel racconto di personaggi del tennis che fu (e questo sport per l’autore è una vera ossessione, di cui il libro parla in modo diffuso e spesso esilarante) si riscopre il modo in cui la letteratura, quando è nelle mani di uno in gamba, e Codignola lo è oltremodo, può fare di tutto, anche parlando di Goering o del sarto di Wimbledon. Con un’avvertenza: dimenticatevi le cose alla Open di Agassi, ma ricordatevi che queste vite brevi sono altrettanto forti come oggetto letterario (e se il buon Andre spara un suo classico e micidiale dritto da fondo campo, l’elegante Matteo gli risponde, sul terreno dei libri, con un raffinatissimo drop shot in controtempo. E il pubblico si spella le mani).

Il 2018 in campo letterario, e ora parliamo di fiction e di romanzi, è stato soprattutto l’anno della scomparsa di un gigante come Philip Roth, morto a fine primavera a 85 anni. Lui, che l’Accademia di Svezia ha snobbato per decenni, se ne è andato proprio nell’anno in cui il premio Nobel per la Letteratura non è stato assegnato in seguito a uno scandalo a sfondo sessuale (classico elemento rothiano), tanto che viene da pensare e, perché no, anche da essere sicuri, che, alla chetichella, se lo sia portato via proprio il buon Philip, ultimo segreto gesto di ribellione (ma anche di fedeltà a una vocazione assoluta alla scrittura, che è tutto ciò che conta sul serio). Per salutarlo nel migliore dei modi Einaudi ha concluso la pubblicazione di tutti i suoi libri con il volume Perché scrivere?, che contiene “saggi, conversazioni e altri scritti”, insomma buona parte di ciò che Roth ha visto intorno ai libri, suoi e degli altri scrittori. Una sorta di autoritratto per frammenti, che si chiude con il discorso per i suoi ottant’anni, pronunciato nel 2013 al Newark Museum, a casa sua insomma, e dove per una sorta di congedo ha scelto le parole del suo personaggio più grande e insondabile: il burattinaio, satiro e sconfinato Falstaff contemporaneo, Mickey Sabbath. “Una vita di incessante dissenso - ha detto Roth alla platea quel giorno - è la miglior preparazione alla morte che lui conosca. Nella sua incompatibilità, Sabbath trova la sua verità”. Arrivederci Philip, e grazie di tutto.

Restando sulle sponde americane e, guarda caso, con il personaggio di un anziano scrittore, ci siamo imbattuti in un romanzo d’esordio fuori dal comune: Asimmetria di Lisa Halliday, pubblicato da Feltrinelli. Una storia in due macro-capitoli dedicati il primo alla relazione tra il leggendario premio Pulitzer Ezra Blazer e la giovane Alice, lei sì personaggio straordinario per il modo in cui Halliday lo ha immaginato e messo in pagina, il secondo ad Amar, economista iracheno-americano che viene trattenuto a lungo in aeroporto a Londra e così c’è l’occasione di trama per raccontare la sua vita. Bisogna dire che, anche per originalità, il botto lo fa la prima parte del romanzo, il botto è Alice, intorno a lei si stendono tutte le altre ramificazioni di storia, lingua, costruzione letteraria. Ma quando la ragazza dice a Blazer “Facciamo qualcosa di terribile”, è lei che serve il perfetto assist allo scrittore per rispondere: “Mary-Alice, questa è la cosa più intelligente che tu abbia mai detto”. Se non è amore così, non saprei cosa altro potrebbe essere. Tra i due personaggi, ma questo è relativo, e soprattutto tra noi e il romanzo. E questo conta.

Una parola, in questa lista, la merita poi un romanzo che, facendo finta di essere qualcosa d’altro - per esempio una specie di romanzone di inizio Novecento oppure una classica storia di formazione - in realtà fa davvero quello che promette il risvolto di copertina: racconta “in tutta la sua perturbante evidenza il nostro tempo, quello che viviamo ogni giorno”. Si tratta di Tutto quello che è un uomo del canadese-ungherese David Szalay (Adelphi), libro che - banalizzando molto, è chiaro - sceglie un passo che potremmo definire classico, con il quale batte un percorso ipercontemporaneo, la cui riconoscibilità però appare poco a poco, come se ce la dovessimo guadagnare, ma, sia chiaro, non certo in senso punitivo, solo di consapevolezza progressiva, di lento autosvelamento attraverso gli oggetti, i pensieri, le tristezze e le geografie, della nostra stessa vita. Non arriveremo, per fortuna, a un approdo definitivo, ma, come hanno detto in tanti e penso soprattutto a David Foster Wallace che parla di Kafka (David Foster Wallace che parla di Kafka, due universi completi, non uno solo) e dice più o meno: lo stesso assurdo viaggio verso casa era già casa.

Poi c’è il romanzo italiano. Che piange la morte di Andrea G. Pinketts, ma continua, seppure con tanti limiti che è perfino noioso stare a ricordare, a esistere e ci sono autori che, al di fuori del genere stretto del giallo-noir dove il vento soffia sempre in poppa, provano a fare cose diverse e interessanti. E’ il caso di Gianluigi Ricuperati, che ha pubblicato per Tunué il proprio quarto romanzo, EST, che segna una tappa significativa nella sua carriera, un’opera di maturità sia nel senso delle tematiche che affronta (l’arte, la finzione, ma soprattutto l’inestricabile e irrinunciabile mistero dell’amore, a molti livelli diversi compreso quello più diretto) sia nel senso dell’apertura a una letteratura meno ostinatamente di rottura, più accessibile potremmo forse dire (ma non sono certo che sia esattamente questa la formulazione migliore), più fatta di “carne e sangue”, come ha detto il suo editor, Vanni Santoni. Partendo da una clamorosa installazione d’arte contemporanea, una specie di film segreto (e gli echi di Don DeLillo, ma anche di Thomas Pynchon ci fanno subito drizzare le orecchie, ma alla fine sarà tutto diverso, sarà un romanzo italiano e non americano, come è giusto che sia), il racconto poi prende molte altre pieghe, nelle quali anche la personalità irrefrenabile dell’autore-narratore si diluisce nei confronti, trova modo di rendersi più completa, con grande beneficio per il libro, che oggi appare, appunto, un lavoro maturo, rotondo, pronto per arrivare a un pubblico più vasto senza rinunciare troppo alla ricerca della complessità o del continuo stupore.

L’altro libro italiano che segna la maturità di uno scrittore che negli anni ha continuato a progredire è Nel cuore della notte di Marco Rossari (Einaudi). Pur con ancora qualche limite, che peraltro hanno anche i romanzi di Joseph Conrad, relativo al fatto che è indubbio che il libro abbia una sua voce, fortissima, potente e chiara, ma talvolta i “portatori” di questa voce sono più deboli, “Nel cuore della notte” è un’opera importante, che spazza via quasi tutti i luoghi comuni di quei romanzi italiani in fotocopia e che sa prendere la lezione di certi maestri stranieri e ricondurla sulle strade patrie (del resto Rossari è sia un gran lettore sia un ottimo traduttore, entrambi elemento che lo qualificano bene e gli offrono strumenti di chiaro valore aggiunto), con un prodotto letterario originale e vicino. Al quale è bello pensare di avvicinarsi usando proprio una delle immagini pop intorno alle quali ruota il romanzo, ossia la scena del film Paris, Texas di Wim Wenders nella quale Harry Dean Stanton parla con Nastassja Kinski attraverso il vetro di un peepshow. Quel vetro è, in un certo modo, il senso del romanzo, del nostro stare “al di qua”, riconoscendo però, nel caso del film con enorme struggimento, anche chi (o cosa, il libro, per esempio) sta “al di là”. E come dice a un certo punto il protagonista della storia, “credo di avere scritto più pagine memorabili in chat che in tutto il resto della mia vita”. Qui, chiaramente, c’è qualcosa che parla di noi, e che decifreremo probabilmente solo con il passare del tempo.


Leonardo Merlini
Kilgore Magazine

10 agosto 2018

Andy 90, è arrivato (forse) il momento di salutare Warhol

Il suo più famoso motto recita che "nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti". La celebrità di Andy Warhol, di cui in questo 6 agosto del 2018 cadrebbe il 90esimo compleanno, è durata di più, ma anche per lui, padre della Pop Art americana e di un certo modo di pensare tutto il contemporaneo, oggi è forse venuto il momento di un salutare passo verso lo scadere di quel quarto d'ora sotto i riflettori globali.

Proviamo a spiegarci: la lezione dell'artista nato a Pittsburgh nel 1928 è stata cruciale, non solo a livello di pittura e fotografia, ma anche per il cinema e perfino ha avuto un peso nella letteratura. Come ha scritto il filosofo Arthur Danto, "se dal Brillo Box di Warhol sottraiamo la scatola Brillo del supermercato, ciò che rimane è quello che la rende arte. Qualcosa di invisibile come l'anima". E, qualche anno fa, in occasione di una retrospettiva a Milano, il critico Francesco Bonami ha chiarito la posizione di Andy nel nostro presente. "Warhol - mi aveva spiegato Bonami - è affascinate perché 50 anni fa, anche inconsapevolmente ci parlava del mondo in cui saremo vissuti. Forse è il più fantascientifico artista che possiamo immaginare".

Tutto vero. Anche la fantascienza però, a un certo punto viene raggiunta e superata dagli eventi (soprattutto nel mondo della Grande Accelerazione) e per Warhol si è, in un certo senso, compiuto quel destino che era già insito nella sua scelta rivoluzionaria degli Anni Sessanta: unire la pubblicità e l'arte, in un grumo inestricabile. E oggi un po’ la sua arte è tornata a essere sostanzialmente pubblicità.

C'è però anche un aspetto dell'approccio warholiano che resta cruciale, ancora oggi nel mondo degli iperoggetti teorizzato dal filosofo Timothy Morton, che tanta parte sta avendo nel modo in cui le frange più avanzate del contemporaneo pensano se stesse e l'idea di arte. E riguarda soprattutto il concetto di factory, di produzione collettiva, di scomparsa dell'artista, pur a fronte di una evidente, almeno per Warhol, sovraesposizione e sovranarrazione mediatica. Qui, nella sua scomparsa, Andrew Warhola Jr., trova crediamo il proprio pieno compimento.

E dunque, al termine di quei lunghi 15 minuti, mentre l'arte assume sempre di più l'aspetto di processi collettivi, di azioni estranee al suo sistema e di perdita, o meglio, di sublimazione della natura oggettuale dell'opera, Warhol resta con noi, ma con meno, per dir così, ansia da prestazione. 
Buon compleanno, Andy.

02 agosto 2018

Trent'anni senza Carver, l'accuratezza come moralità

"L'accuratezza è la sola moralità della letteratura" diceva il poeta Ezra Pound. Una frase che piaceva a Raymond Carver, lo scrittore americano che ha rinnovato la tradizione della short story novecentesca in maniera unica e di cui oggi si celebrano i trent'anni dalla morte, avvenuta il 2 agosto 1988, quando aveva solo 50 anni.
Ricordato come il padre del minimalismo, una corrente letteraria che proprio negli anni Ottanta ha vissuto il suo momento di grande celebrità, Carver in realtà era solo – si fa per dire – un grandissimo scrittore, a tutto tondo, ma gli interventi drastici e, per molti versi, geniali del suo editor Gordon Lish, hanno fatto di lui per anni il principale simbolo di una letteratura asciutta, che nella amputazione trovava la sua forza. Però, di amputazione si trattava comunque e, oggi che sono state pubblicate le versioni originali di molti dei racconti di Carver, siamo di fronte a un dato di fatto, ben sintetizzato da un altro mostro sacro della letteratura appena scomparso come Philip Roth: "Mai opera narrativa ebbe meno bisogno di revisioni". Punto.
Ma Lish, pur avendo inflitto allo scrittore dei dolori profondissimi, documentati nelle drammatiche lettere di Carver al suo editor, ha anche stabilito la fama di un autore che veniva da una vita difficile, ai margini, segnata dall'alcolismo, dalla miseria, da una paternità precoce e da molti momenti disperati. Sarebbe successo lo stesso senza quei tagli? Forse sì, ma la controprova non esiste. Esistono solo le diverse versioni dei racconti, esiste una prosa che, comunque, lascia il segno nei lettori e che ha costretto tutti gli autori venuti dopo di lui (e dal nostro punto di vista di lettori di Borges anche qualcuno di quelli venuti prima di lui) a fare i conti con l’universo narrativo, in senso completo, di Raymond Carver.
La letteratura era dentro di lui, è chiaro dalla maniera ossessiva con cui ha perseguito, nonostante tutto, la scrittura. Ma fuori c'era quel mondo complesso e spesso incomprensibile con il quale Carver faceva quotidianamente i conti. Da qui anche la scelta della misura del racconto breve: "La mia vita sembrava molto fragile – ha detto lo scrittore nella celebre intervista con Larry McCaffery – per cui volevo iniziare qualcosa che sentivo di poter ragionevolmente sperare di portare fino in fondo, il che significava che avevo bisogno di finire queste cose in fretta, in un periodo di tempo breve". Il che non voleva però dire in modo approssimativo, anzi, Carver rivedeva i testi in modo maniacale, andando alla disperata ricerca di quella accuratezza assoluta da cui siamo partiti. L'accuratezza era anche per Carver una forma di moralità. E i risultati sono in molti casi straordinari.
Soprattutto perché l’argomento è uno solo: un'America minore, potenzialmente esplosiva, perennemente relegata ai margini. Esattamente l’opposto del minimalismo chic newyorchese che si è voluto far procedere dalla lezione di Carver. Ma quella era solo una vulgata mediatica, i veri nomi che stanno intorno all'opera di Raymond sono quelli di John Cheever, antecedente, e Richard Ford, successivo. "Essenzialmente – ha detto Carver in un altro passaggio con McCaffery – io sono una di queste persone confuse e spaesate, vengo da gente così, quella è la gente accanto a cui ho lavorato e mi sono guadagnato da vivere per anni". Persone che un certo mondo – e ricordiamo che sono gli anni della presidenza Reagan – definirebbe perdenti, uomini e donne che si allontanano zoppicando dalla scena di un crimine spesso marginale. A salvarli, e qui forse sta tutto il senso di questo anniversario, c'è l'esattezza della loro enunciazione come personaggi letterari.
"Dopo quella mattina – leggiamo in uno dei brani che Gordon Lish ha tagliato dal racconto che Carver aveva intitolato Distanza e il suo edito ha cambiato in Gli si è appiccicato tutto addosso nel quale si parla di una coppia uscita da un litigio – sarebbero arrivati i periodi difficili che li attendevano, altre donne per lui e un altro uomo per lei, ma quella mattina, quella mattina lì avevano ballato". Non c’è minimalismo, non c’è una qualche teoria. C'è il senso di una vita comune, che solo la grande letteratura riesce a restituirci esattamente nel modo in cui ciascuno di noi, a modo suo, la vive e, soprattutto, la sente.

26 luglio 2018

Il desiderio di ricostruire tempi interessanti

ovvero
Un discorso politico sulla prossima Biennale d'arte


Pioveva quando sono salito, parecchi anni fa, sull’eliporto della Pirelli alla periferia di Milano per intervistare Tomas Saraceno, l’artista argentino che di lì a qualche mese avrebbe portato in HangarBicocca una delle sue più celebri installazioni, quella Schiuma spazio temporale dentro la quale il pubblico si sarebbe potuto addentrare come in un fantastico gonfiabile iper contemporaneo e giocosamente straniante. Abbiamo parlato di scienza e arte, di innovazione tecnologica e visioni, mentre in fondo alle nuvole spuntava lo skyline di una città in corsa verso la sua nuova vita. Pioveva anche quando ho visitato per la prima volta la Biennale d’arte del 2013, quella di Massimiliano Gioni, che in seguito avrei incontrato parecchie altre volte, restando sempre affascinato dal suo modo di pensare per contenitori più che per contenuti, con una abilità elastica notevolissima. Oltre che dalla sua ambizione di sapere tutto, che in qualche modo è diventata, in maniere spesso antitetiche, una delle cifre più vere del contemporaneo.

Ho ripensato a quei due momenti, estremamente interessanti nelle loro difficoltà, mentre cercavo una via d’ingresso a un pezzo decente sulla nuova Biennale d’arte, quella del 2019 curata da Ralph Rugoff, che è stata presentata a Venezia all’insegna dello slogan “May You Live In Interesting Times” (Che Voi Possiate Vivere In Tempi Interessanti) che, mi sono reso conto - con lentezza, ma con altrettanta chiarezza - è probabilmente il più bel titolo di una Biennale da parecchio tempo a questa parte. Ovviamente, essendo mutuato da un proverbio cinese, ossia una forma letteraria fatta apposta per andare bene in qualsiasi contesto, il fascino deriva soprattutto dalle circostanze nostre, dal tempo in cui viviamo, oggi, in Italia (ma non solo, il mondo è piatto, diceva Thomas Friedman, e anche piccolo in un certo senso). Ma ciò non toglie che l’effetto di questo augurio sia una specie di prospettiva, di possibilità, un’immagine di futuro riscatto. Come per la Biennale di architettura di quest’anno, curata dalle irlandesi Shelley McNamara e Yvonne Farrell, che è dedicata al “FREESPACE”, pensando a Venezia si pensa a un’idea complessa di libertà che, lo scrivo con il massimo understatement possibile, è il meglio che ci possa capitare (insieme al desiderio e a leggere per sempre Philip Roth, naturalmente).

Il discorso è politico, per quanto mi terrorizzi l’idea di fare un qualsiasi discorso politico, ma la verità è che ogni volta che incontro Paolo Baratta penso che dica cose che sarebbero perfette per un presidente del Consiglio (e quando glielo ho detto direttamente ha fatto finta di non sentire, il che, ne sono convinto, è una sorta di tacita conferma, quindi la speranza non è ancora naufragata, mi dico) e perciò il discorso politico lo lascio fare a lui. “Noi – ha detto nella dichiarazione ufficiale - siamo fedeli al principio che l’istituzione deve essere una macchina del desiderio volta a tenere sempre alto e fermo il bisogno di vedere di più, di quel vedere di più nel quale ci aiuta l’arte. Ma allo stesso tempo la Biennale deve essere il luogo nel quale il singolo visitatore sia fortemente cimentato nel confrontarsi con l’opera d’arte. L’istituzione, i luoghi, le opere convocate dal curatore, la loro dislocazione nello spazio, il clima che l’istituzione sa creare, tutto deve concorrere a costruire condizioni favorevoli perché il visitatore si senta ingaggiato di fronte alla singola opera che incontra, quasi fosse su una pedana per un incontro di scherma”. Ovvietà, direte. Va bene, aggiungo pure che sono state pubblicate in uno dei “luoghi” del presente più paludati: un comunicato stampa. Ma il punto è proprio qui: la palude oggi è quello che c’è fuori o intorno al comunicato stampa, la palude è il presente reale (nel modo in cui si diceva una volta il Paese reale), la palude siamo noi. E i concetti che questo signore elegante e potente (ma segretamente scanzonato) continua a ripetere dall’alto del suo ruolo (un ruolo politico, ricordiamocelo, e se volete fate i vostri liberi confronti), a volte con reiterata ostinazione, sono semplicemente quello che dovrebbero essere: un modo per “tenere alto e fermo il bisogno di vedere di più”. Punto, non serve altro. Il meglio che potremmo augurarci. Che noi possiamo costruire tempi interessanti, nei quali qualcun altro, il “voi” del proverbio cinese o del titolo della Biennale ventura, possa vivere, ragionevolmente meglio. Anche (e perché no, soprattutto) attraverso l’arte. Bum!

Pioveva anche la sera che ho preso parte, per la prima volta e dopo averlo a lungo ambito, al cocktail stampa inaugurale di una Biennale, quella d’arte del 2017. Dal balcone di Ca’ Giustinian, al centro di un piccolo mondo molto autoreferenziale (noi maschi avevamo quasi tutti la barba brizzolata, per dirne una), guardavo il mio quarto bicchiere di spritz e la chiesa della Salute nella luce blu metallo della sera che iniziava a scendere sul Canal Grande. Non ci poteva essere nulla di più scontato (insomma, forse le cartoline ritoccate del San Marco e Rialto con i gondolieri, quelle sì), nulla di più istituzionale. Ma, ancora una volta, il punto è esattamente questo: quando è una istituzione così apparentemente leggibile e consolidata a dare messaggi fortissimi (poi le mostre, gli artisti, i padiglioni, i curatori, tutto può essere opinato e criticato, ma non è di questo che sto scrivendo adesso), messaggi rivoluzionari in modo molto pratico, allora vuol dire che, nonostante tutto, c’è un’altra e diversa possibilità: ossia che ci siano tante altre possibilità.
La magnifica e terribile bellezza della complessità. La libertà della complessità. La rivendicazione della complessità. Così, credo, si iniziano a costruire tempi davvero interessanti. Che possono essere i nostri.

Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

31 gennaio 2018

Lettera di un oscuro giornalista a Philip Roth

Caro Philip Roth,

ho letto con passione la sua intervista con il New York Times, trovando ben più interessanti le parti sulla sua vita dopo la scrittura, piuttosto che i giudizi politici su Trump che hanno fatto titolo, ammirando comunque la precisione del paragone con il reale Charles Lindbergh divenuto presidente, a differenza del biondo magnate, solo nella storia letteraria. Ma più di ogni altra frase (e comunque quella sullo stupore di arrivare a sera ogni giorno è una specie di romanzo in poche parole che da sola vale il viaggio), devo confessarglielo, sono rimasto totalmente folgorato dalla fotografia che le ha scattato Philip Montgomery: un uomo anziano, ritratto quasi di spalle, con i capelli ancora lunghi, ma chiaramente provvisori, la schiena incurvata, la parete spoglia e, fuori dalla finestra, verso la quale però lei non guarda - non so se per stanchezza, pudore o malinconia - quella New York perfetta, inarrivabile e splendente come solo la pubblicistica interiore ci sa mostrare. Mi sono commosso, vuoi per la mia senilità incipiente, vuoi perché la fotografia fissa con precisione incurante uno dei luoghi cardine della sua letteratura, e della vita di tutti. Lei Roth, qui nei panni chissà quanto stravaganti dell’ex scrittore, è colto - come sempre accade con le buone immagini, perdoni la banalità del commento - esattamente sul punto non so se di varcare, ma certo di percepire una soglia, un passo apparentemente semplice e in realtà così definitivo, come ci apparirà quando, guardandoci indietro, ce ne ricorderemo.

(“Si presentarono i miei cinquant’anni - cantava il Buffalo Bill di Francesco De Gregori - e un contratto col circo”).

Non lo so quale sia questa soglia, non è importante definirla, quello che mi preme, quello che mi ha fatto sedere davanti al computer con un berretto di lana verde in testa, un berretto che ho usato solo a New York mille anni fa, è che in quella soglia mi ci sono adagiato pure io, mi ci sono sentito accolto, capito. Era una lanca di fiume fatta per ricevermi, una pagina sagomata con il mio profilo ingombrante e sgraziato. Era lì, come la porta della Giustizia di Kafka, solo perché io la spingessi e, ammiccando con il dovuto rispetto all’indecisione dei personaggi del buon Franz, stavolta l’ho fatto, proprio spingendo i tasti che danno forma a questa “lettera” che a lei, caro Roth, non si preoccupi, non spedirò.

La mia, di soglia, questa notte è lavorativa. Sono un giornalista che potrebbe vedere chiuso il suo giornale e perdere, in un sol colpo e per motivi che sono in gran parte bislacchi e in piccola parte fraudolenti - o così a me appaiono - il suo lavoro e un bel pezzo del suo mondo. Nel giro di pochi giorni, ma dopo una attesa che dura da troppo tempo, dopo uno stillicidio di ansia e di piccole vergogne, oltre che di continue sconfitte apparentemente trascurabili, alle quali ho però deciso di non voler più concedere la mia tristezza. Per questo le sto scrivendo, perché nessuno, alla fine, potrà battermi se io posso scrivere una lettera a Philip Roth, o meglio, mi batteranno lo stesso, ma io avrò la mia missiva, la mia soglia personale a cui guardare, come lei che, in quella foto, lo confessi, stava di sicuro scrutando uno specchio di Borges sul pavimento della casa della Grande Vecchiaia. Lo so, il mondo e i suoi accidenti non ci appartengono mai fino in fondo, però talvolta li riusciamo a distinguere e lei pure è riuscito a raccontarli. Non sto a dirle che cosa sia esploso nella mia testa di inesperto bibliotecario quando lessi per la prima volta, quasi clandestinamente durante le ore di lavoro, lI Teatro di Sabbath, o ancora il totale delirio che mi contagiò nelle settimane, poco tempo dopo, dedicate a Operazione Shylock. Non sto a dirglielo perché comunque, per quanto momenti straordinari, non sono o non vogliono essere il cuore di questa lettera. Il punto è la domanda che la soglia mi ha fatto sorgere: ma per un condannato a morte il rinvio della sentenza è un giorno in più oppure un allungarsi dell’agonia? Io so che lei, Philip, la risposta la conosce, ma so altrettanto bene che, per fortuna, non me la dirà. Ma, per favore, resti ancora un momento fermo come nella fotografia, a ricordarmi che, in ogni caso, tutto è sempre possibile.

Facendo il mio lavoro ho incontrato tanti scrittori, non penso di annoiarla con un elenco, solo citerei, cercando di stabilire delle contiguità, Aharon Appelfeld (fermato quasi clandestinamente in un corridoio a una Fiera del libro, lui che clandestinamente era stato fermato dall’incubo della Storia) e Norman Manea (con il quale invece mi sono seduto due volte nello stesso hotel a parlare di come la letteratura non ci salva, e chissà se aiuta). Poi, se volto la testa di trenta gradi a sinistra da questa scrivania vedo un autografo con dedica di Don DeLillo (è il frontespizio de La stella di Ratner, anche questo vorrà pur dire qualcosa, anche se adesso mi chiedo se sia successo davvero, se la prova scritta basti a renderlo reale) incorniciato sotto una mensola che ospita qualcosa di Primo Levi, ma quello è uno dei suoi intervistati.

Benché animato da una voglia di scrivere che da puerile è diventata negli anni qualcosa di più complesso, devo dirle che su di lei, Roth, ho a lungo rinviato il pezzo “importante” (almeno per me), ho girato intorno all’argomento, con qualche recensione controllata e poco appassionante o brevi accenni, magari buoni o persino buonissimi in qualche raro caso, ma dentro ad altre storie, mai soltanto sue. Eppure la relazione era così forte, così importante per me, da usarla come stilnovistico “uomo schermo” per parlare della mia New York in una specie di saggio dove ho provato a raccontare - fallendo naturalmente - quello che non si poteva raccontare, come per esempio la completa esperienza di attraversare di notte su un taxi il Manhattan Bridge (ogni volta che passiamo sul Manhattan Bridge - dice più o meno Ben Lerner nel suo stupefacente romanzo Nel mondo a venire - ricordiamo di avere attraversato il ponte di Brooklyn), oppure la temperatura assurda di un tè assaggiato con imprudenza e conseguente choc la mattina troppo presto in un bar di Carrol Gardens. Tanto che - dato che comunque si doveva fallire, allora perché non farlo alla grande - quando il mio racconto-diario è arrivato alla domenica nella quale sono realmente salito sul ponte di Brooklyn, non ho resistito e ci ho messo pure un incontro con Mickey Sabbath, “furtivamente osceno, con indosso una giacca a vento troppo larga, sbiadita, e in tasca ancora il ricordo delle mutandine dell’ultima conquista immaginaria”. Poi, aggiungevo, “sono certo di averlo sentito bisbigliare un commento ammirato sulle tette di una manifestante afroamericana particolarmente infervorata (il contesto era corteo di gruppi religiosi sul Ponte, ndr). E lei, perfettamente a proprio agio, le ha scosse con più entusiasmo, mentre intonava il ritornello di un Inno al Signore, guardando Sabbath dritto negli occhi”.

Capisce Philip, capisce che io, oggi che non ho idea di cosa succederà domani, oggi che penso che dovrei provare maggiore gratitudine, magari alcolica ma vera, nei confronti del tempo che ho vissuto finora, io dovevo scrivere a lei, non potevo fare diversamente, altrimenti sarebbe stato l’ennesimo spreco di un ricordo che invece adesso posso tenermi. E se lei baciava Jackie Kennedy in ascensore io, per lo meno, le ho rubato un paio di personaggi per qualche minuto (il secondo si chiama Franz Kafka, e, dai, lo ammetta, per rubare un personaggio con un nome tanto assurdo ci vuole un briciolo di fegato… in realtà ho rubato anche lei come personaggio, nello stesso racconto - peraltro dedicato a Nathan Zuckerman - ma senza mai chiamarla per nome, chissà se si tratta di un’attenuante o di un’aggravante).
Non sarà molto, ma è già qualcosa.

Anche perché, caro Roth, non è che io abbia solo preso dai suoi libri. Ok, è vero: ho preso parecchio, perfino una cotta per Madeleine, l’aspirante suicida alta e ingobbita che a 29 anni ne dimostra dieci, stando all’opinione di Sabbath, il quale, sia sempre benedetto il bieco Mickey, non per questo rinuncia a un tentativo di seduzione con due bottiglie di superalcolico (naturalmente il tutto accade in una clinica di rehab, come si dice oggi anche in Italia) e che si appunta la classificazione della felicità come “un disordine mentale”, seppure “di tipo piacevole” (io Madeleine la vorrei proprio sposare). Ok. E’ vero pure che mi sono lanciato a velocità folle dentro il dialogo tra il LUI e la LEI de Il fantasma esce di scena, tatuandomi direttamente nel modo di pensare frasi come “il dolore di essere presente nel presente”. Per non dire di Patrimonio e dell’idea stessa del rapporto padre-figlio e di tutte le altre noiose cose importantissime che ne conseguono nella vita, mia, di ogni giorno. Però, però. Qualcosa ho anche dato. Non rida, Philip, non sto parlando di articoli o pezzi più o meno stravaganti, con il New York Times mica posso competere, (megalomane sì, ma con juicio). Sto parlando di corpo, voce, un pubblico. Insomma, non sarò stato il primo, però anche io posso essere annoverato tra gli intrepidi satanassi che hanno osato declamare ad alta voce, e in un paio di casi senza alcun preavviso, la celebre scoperta di Alexander Portnoy: “Tutte le ragazze che vede, salta fuori (tenetevi forte) che si portano appresso tra le gambe: un’autentica figa! Stupefacente! Sbalorditivo! Ancora non riesce ad abituarsi all’idea fantastica che quando stai guardando una ragazza, stai guardando qualcuno che, garantito, si porta addosso una figa! Tutte hanno la figa! Proprio sotto i vestiti”. E, le assicuro, che sguardi estatici in sala mentre l’eco dell’ultima frase ancora risuonava nei pressi del soffitto! Che climax di silenzio prima dell’esplosione della risata (sì, certo, qualcuno era anche perplesso e, ma guardi un po’ lei, una volta un tale si è perfino addormentato durante la mia performance sulla figa, si è addormentato! Che diamine). E la voce persa per provare a spiegare perché Portnoy è uno dei romanzi più disperati e commoventi sull’amore familiare e come sia evidente che Zuckerman è reale, tanto che una volta sul palco ho pure portato l’autore di Carnovsky in carne e ossa (e lo so che non era lei, Roth, per chi mi ha preso, per un imbonitore da fiera? E non era neppure il buon Nathan, il che rende il gioco metaqualcosa molto, troppo complesso. Però le giuro che quell’autore esiste e l’ho pure incontrato qualche sera fa in un bar di Milano, dove mi ha raccontato che finalmente è pronto il suo nuovo romanzo, “alla Roth”, giusto per rimanere in tema).
Santo cielo, adesso però questa lettera proprio non sta più in piedi.
Ce l’abbiamo fatta allora?

Caro Philip Roth,
il tempo stringe. Il mio, per chiudere questo pezzo, il suo per non doverne sprecare mai per leggerlo. Continuo a non sapere se il condannato stia godendo il giorno in più o se continui a torturarsi nell’attesa. Io ho deciso che le ore servite per scriverle questa missiva sono ore valide, ore buone, ore che avrebbero dato soddisfazione - non come esito, per l’amore del cielo, ma come applicazione - al buon vecchio Hemingway e anche, spero, a un amico che scrive meglio di me e che in un qualche modo sa tutto, anche se finge il contrario. Cosa succederà poi io non lo so, credo che non lo sappia nemmeno lei, Philip. E’ un buon punto di partenza per scriverle una lettera magari, tanto poi nessuno ci crederebbe, men che meno Roth. O no?

(Vi ho voluto bene, adesso vado)

(Arrivederci, amore, ciao. Le nubi sono già più in là).


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine 2018