20 agosto 2015

La guerra in Iraq e l'indicibile: la missione di Phil Klay

“Sparavamo ai cani”. Si apre con tre parole, già capaci di creare un’atmosfera di inquietudine, la raccolta di racconti Fine missione di Phil Klay, 32enne scrittore statunitense che con questo suo primo libro ha vinto il National Book Award 2014. Un premio che, leggendo le storie che raccontano, forse davvero per la prima volta, gli ultimi anni della guerra in Iraq, appare quasi un naturale coronamento di un lavoro letterario che sa unire la precisione carveriana nella gestione della misura della short-story a un’indagine sul tema dell’umano – perché di questo si tratta – capace di raggiungere, senza morbosità né eccessi spettacolari, profondità sconvolgenti. Al punto da lasciare disorientato il lettore, che esce dalla pagina di Klay con la sensazione di avere ammirato un’opera d’arte e, al tempo stesso, di essersi completamente persi all’interno di un mondo che, ingenuamente, credevamo di conoscere.


Ufficiale dei Marine, Klay ha servito in Iraq come capitano, nella provincia di Anbar, tra il gennaio del 2007 e il febbraio del 2008, in un momento molto difficile per le truppe statunitensi, prima di congedarsi nel 2009 e quindi conseguire un Master in scrittura creativa. E la mano tecnica, nella sua pagina, si nota, è, militarmente verrebbe da dire, dichiarata. Ma ciò non basta a fare di storie come Il denaro come sistema di armamento o Preghiera nella fornace quegli oggetti letterari primordiali che nei fatti sono. La scrittura di Phil Klay, che in Italia è pubblicato da Einaudi, induce a domande sul senso della stessa letteratura o su che cosa significhi realmente trovarsi in guerra. Domande che, necessariamente, ammettono solo risposte parziali, quando non completamente oscure, e alle quali Klay non vuole fornire alcun tipo di soluzione, se non quella, preziosissima nella sua fragilità, della creazione artistica in se stessa. “In realtà – dice a un certo punto un personaggio – in Iraq è successo quello che è successo, niente di più”. Una frase solo apparentemente scontata, ma che cela l’abisso di orrore – parola intorno a cui ruota, tanto per fare un paragone che indica qual è l’ambito qualitativo in cui ci si sta muovendo, la follia di Kurtz in Cuore di tenebra di Joseph Conrad – rappresentato dallo stare in mezzo a una cosa di fatto indicibile nella sua totalità, ossia la violenza che porta con sé l’ombra, purtroppo non bergmaniana ma semplicemente brutale e biologica, della morte.

Morte che viene celata, più che sotto la retorica, che nei racconti di Klay non compare quasi mai, nemmeno dove ce la aspetteremmo, ricorrendo a un gergo anestetico per acronimi che trasforma i morti in azione in KIA, gli ordigni nascosti sulle strade in IED, le squadre di artificieri in EOD e via di seguito. Un gergo che Klay usa con raggelante indifferenza artistica, arrivando a comporre il racconto OIF, ossia Operation Iraqi Freedom, quasi utilizzando solo queste sigle aliene. La vita umana passa nella distinzione tra i KIA e i WIA (feriti in azione, ma sopravvissuti), ma anche nella disturbante consapevolezza “che KIA significa che loro hanno dato tutto. WIA significa che io invece no”.


Che cosa sappiamo davvero di noi stessi. Potrebbe essere questo il motivo per il quale queste short-story glaciali e lontanissime interrogano ciascuno di noi anche a migliaia di chilometri dall’Iraq in tono incalzante e avvolgente. Perché, come dice il Marine del primo racconto che dà il titolo alla raccolta prima di sparare al suo cane malato terminale, bisogna concentrarsi “sulla tacca di mira, non sul bersaglio. Il bersaglio deve essere sfocato”. In questa sfocatura di fronte al mondo si muove la grande letteratura, da sempre. Un movimento di cui oggi Phil Klay fa legittimamente e spaventosamente parte.