28 febbraio 2014

Jonathan Littell, un testimone davanti a Bacon

Francis Bacon è uno dei pittori contemporanei più citati e riconoscibili, ma a ben guardare le sue opere, figurative per certi versi in modo molto più classico di quanto sia comunemente percepito, restano degli enigmi più vasti e celano, oltre all’evidente senso di angoscia e di carne, una storia più profonda, che attinge a piene mani alla tradizione e che si può riassumere con una sola parola, spesso usata da Bacon per titolare i propri quadri: pittura. Di questo parla Trittico, la raccolta di tre studi (si noti l’osservanza baconiana di titolo e sottotitolo), firmata da Jonathan Littell, lo scrittore newyorkese divenuto celebre in tutto il mondo per il romanzo sull’Olocausto “Le benevole”. Pubblicato in Italia da Einaudi, in una versione sovradimensionata della collana Frontiere, il libro è la storia di uno sguardo, freddo ma comunque empatico, sul lavoro di Bacon, che parte dall’opera che ha dato il via alla carriera del pittore – i Tre studi di figure ai piedi di una crocifissione del 1944, trittico che ha conquistato un posto indelebile nella storia dell’arte contemporanea anche se, con il passare degli anni, la sua forza sconvolgente si è in parte perduta – e arriva all’unico possibile punto d’approdo: la creazione di una “grande figura”. Parola che è la radice del termine “figurativo” e che Littell ha il coraggio di associare – in termini ben motivati ma comunque piuttosto arditi - anche alla ricerca di un mostro sacro dell’Action Painting come Mark Rothko. Pittore che Bacon ufficialmente detestava, ma di cui, nota l’occhio dello scrittore, spesso si ritrova una potente eco negli sfondi bicromi dei dipinti dell’irlandese.

Littell, che scrive anche pagine splendide su Las Meninas di Velasquez, racconta Bacon da un punto di vista che resta quello di uno scrittore, e in più di un caso le analisi sulle “motivazioni” del pittore sembrano essere quasi delle confessioni autobiografiche, che qualcuno potrebbe anche considerare non particolarmente originali (e per questo, probabilmente, dotate di una discreta percentuale di verità). “Per lui – scrive Littell – la pittura non era una protesta contro qualcosa, ma un modo per affrontare la giornata, il modo migliore e più affascinante che ci fosse, ed era anche un modo, più segreto, nonostante venisse poi esposto alla vista di tutti, per sbarazzarsi dei propri fantasmi più intimi”. Chiarissimo, e viene in mente un altro grande irlandese dallo sguardo severo, Samuel Beckett. Più intrigante Littel lo diventa però quando si concentra sul senso ultimo dell’opera di Bacon: “La figura è l’oggetto dipinto nel quadro; il soggetto, come in tutta la pittura, e non solo in quella astratta, è la figura in sé”. Il nuomeno pittorico dunque, che fa da sfondo – si dovrebbe dire da ombra se pensassimo in termini di ortodossia baconiana, quelle splendide e spaventose ombre che sgorgano o, meglio, sfuggono dai personaggi dipinti – alla manifestazione di ciò che per Littell è in fondo il modo in cui pensa la pittura. Difficile immaginare un compito più ambizioso e straziante.


Alcuni appassionati e qualificati osservatori di Francis Bacon hanno visto nel saggio di Littell poca attenzione alla dimensione più carnale – nel senso letterale dell’aggettivo riferito alla carne – del lavoro del pittore. Ma Littell, e la sua bibliografia lo conferma, somiglia a quel “testimone indifferente” che lo scrittore identifica come figura ricorrente nelle opere di Bacon, e come tale mantiene un distacco sebbene, a differenza del personaggio, non distoglie lo sguardo e anzi lo esaspera chirurgicamente davanti ai dipinti. In fondo è solo un altro modo di essere appassionati. E non solo i dipinti, ottimamente riprodotti a colori in grande quantità nel libro, sono passati sotto la lente di Littell, ma anche molte fotografie: su tutte quella che ritrae un giovane Bacon dandy insieme al suo compagno George Dyer a Soho nel 1964. L’analisi dello scrittore è magistrale, ma quello che più conta è la testimonianza di un amore che, in ultima analisi, sembrava da sempre destinato a una fine tragica e alla conseguente ossessione di Bacon. “E’ stata l’incapacità da parte di Dyer – scrive Littell in un passaggio chiave – di imporsi allo sguardo di Bacon come individuo da amare anziché come doppio da dipingere che l’ha condotto alla morte”. 

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