28 agosto 2013

Caro David, ho voglia di innamorarmi di Lenore

DFW, La scopa del sistema e un’ultima festa

Una biografia appena uscita, un libro di interviste in arrivo, probabili celebrazioni negli Stati Uniti come in Europa. Il 12 settembre prossimo sarà il quinto anniversario della morte di David Foster Wallace, scrittore di prima grandezza e complessità forse ancora non del tutto compresa che in molti rimpiangono e intorno alla cui figura si è creata un'aura di santità laica che, molto probabilmente, nulla ha a che fare con l'uomo e l'artista che deve essere stato realmente (per quanto la parola "realtà" e i suoi derivati necessitino sempre delle proverbiali virgolette) DFW. Un ragazzone che per gran parte della sua vita ha combattuto con la malattia mentale e che, come ha raccontato brillantemente David Lipsky, dalle sue presentazioni, affollatissime anche di belle ragazze, in fondo sperava di ricavare "un po' di sesso" (e qui viene in mente un saggio di Roberto Bolaño nel quale il grande scrittore cileno - spesso accostato a Foster Wallace per il suo impatto sulla letteratura del XXI secolo - scriveva che anche Wittgenstein e Kafka, "volevano solo scopare"). Ma anche un giovane americano che ha saputo, con la sua intelligenza così acuta da non poter non essere dolorosa, dare una impronta nuova alla letteratura contemporanea con quel suo disperato tentativo, per usare le parole di Stefano Bartezzaghi "epico e sovrumano di dire tutto". Certo, gente come Herman Melville ci aveva già provato, e in Moby Dick ci ha lasciato una prova di un possibile successo della titanica impresa, ma raccontare in questo modo folle e onnivoro la società dell'informazione - e qui si inserisce Don DeLillo, e il suo strettissimo rapporto a distanza epistolare con Wallace che ha generato una sorta di affinità effusiva che è forse la cifra più profonda (nel senso della parola inglese inner) della migliore letteratura di oggi - è  un'impresa che nella Nantucket di metà Ottocento nessuno avrebbe potuto nemmeno immaginare.

 Premesso tutto ciò, resta un tema che gli accidenti (nel senso filosofico del termine) del mondo hanno inevitabilmente portato in primissimo piano: ossia il suicidio a 46 anni di DFW. Un finale – “quello che lui ha scelto” ha scritto il biografo D.T. Max - che è stato quasi sempre interpretato come chiave di lettura postuma di tutto quanto Wallace ha fatto e scritto prima di quel singolo momento. Un finale che ci ha inesorabilmente spinto a rileggere racconti e romanzi cercando le tracce di questo epilogo, come se fosse stato necessariamente (sempre in senso filosofico) inscritto nella bibliografia wallaciana. E le celebrazioni, gli anniversari, per quanto affettuosi, corrono il rischio di puntare sempre in questa direzione, anche solo per il fatto che la ricorrenza è proprio quella dell'ultimo giorno di vita di DFW. Liberarsi dalla cappa di quell'evento - come faticosamente ha fatto l'amico Franzen, il cui tentativo al momento sembra essere il più onesto e riuscito - può essere la chiave per dare un nuovo significato a questa perdita, perché è chiaro che di questo si sta parlando. E un punto di partenza potrebbe essere quello di riportare in primo piano il romanzo d'esordio di David Foster Wallace, La scopa del sistema, opera che lo stesso scrittore ha più volte negli anni in qualche misura ripudiato (anche Kafka voleva - o quantomeno ha finto di volere - che i suoi scritti venissero distrutti) ma che rimane, nel mondo iperuranico delle Lettere, come prova inalienabile a disposizione del giudice lettore, il cui insondabile parere, ciascun parere, è, nel suo ambito unico e sovrano, per lo meno fino al successivo ripensamento, sempre nei diritti di chi legge. Un romanzo che lancia scintille di genio e di spensieratezza che fanno da complementare contraltare alla stagione della consapevolezza di Wallace, da altra faccia del santino, da arricchitore di un profilo che, almeno a livello di pubblicistica, negli ultimi anni è vissuto quasi esclusivamente di una sola parte del personaggio. E oggi, cinque anni dopo un giorno qualsiasi dell'agosto 2008 (e non proprio quel giorno di settembre), è bello potersi innamorare di Lenore Beadsman, delle sue Converse nere modello alto, delle sue docce frequenti e dei suoi vestiti bianchi. E innamorarsi ancora di David e di quel suo essere un genio "con il freno a mano tirato", senza pensare a tutto il resto, senza pensare per forza a quel garage. Come se fosse solo una festa, l’ultima e più grande.

Proprio nella prefazione all'edizione Einaudi de La scopa del sistema, sempre Bartezzaghi pone quello che potrebbe essere il non-manifesto del quinto non-anniversario di DFW: "Forse la domanda preliminare - a proposito di quando saremo in grado di rileggere le opere di David Foster Wallace senza pensare al suo suicidio, quindi come se ci fossero arrivate da una fonte apocrifa - ammette solo risposte vaghe; forse gli unici che possono dire qualcosa di netto (reciso e preciso) sono coloro che a quella domanda si sentono di rispondere 'mai'". Non-manifesto da cui ci permettiamo di partire suggerendo di scartare la risposta "recisa" di cui sopra per provare, una volta di più, a correre sul filo teso sull'abisso di una lettura senza interpretazioni preconfezionate o indotte. Qui, adesso, ancora e solo David.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

27 agosto 2013

Michael Chabon ovvero perdersi nel diluvio di storie

A proposito di Telegraph Avenue

La definizione di "grande romanzo americano" è ormai ufficialmente abusata, per quanto si possano elencare diverse opere che legittimamente ambiscono a questo titolo, al tempo stesso il più lusinghiero e il più vago della pubblicistica letteraria. Meno battuta, forse, è però la via che va alla ricerca di quei libri che si rivelano complementari ai capolavori ufficiali, che in qualche modo rappresentano l'altra faccia dei monumenti. In questo senso i romanzi di Michael Chabon, un premio Pulitzer che non si prende troppo sul serio (e che nelle foto dei quotidiani viene sempre proposto in una versione giovanile, mentre in realtà porta con grande leggerezza e intensità i suoi 50 anni), sono una sorta di mappa del tesoro per i cercatori di questa America letteraria che ama i territori più ombreggiati, gli angoli di periferia e i cavalcavia dove, e forse più che mai, scorre comunque il Sogno a stelle e strisce, oltre che il suo racconto.

Avventurarsi nell'ultimo, incontenibile, Telegraph Avenue (Rizzoli), storia impossibile da riassumere della comunità - soprattutto afroamericana, ma non mancano meravigliosi ebrei - che vive nell'omonima via di Oakland nel 2004, mentre un megastore dell'intrattenimento minaccia la sopravvivenza di un raffinato negozio di dischi di quartiere, è un'esperienza che rinnova lo stupore di lettura di romanzi come Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, o Il sindacato dei poliziotti Yiddish. Tra pazzesche scene di parto, iconografie da B-movie anni Settanta, dirigibili neri dove si consumano pasti luculliani e tante citazioni musicali, Chabon costruisce - e il verbo rende perfettamente il senso di un'opera che dimostra in maniera inoppugnabile come il massimo dell'apparente libertà nasca solo dal massimo della cura strutturale di ogni singolo dettaglio - un mondo completo e autosufficiente, una palla di vetro natalizia nella quale, guardando bene, magari pure con gli occhi velati di uno pseudo-Borges, dietro l'apparenza kitsch, si può essere così fortunati da vedere "tutto". Ma, in fondo, senza rendersene conto.

L'epopea degli Stallings e dei Jaffe, due famiglie intorno cui si incardinano miriadi di altre storie (e la sensazione è quella di una doccia che inonda il lettore, dove l'acqua è la lingua e le gocce sono le singole vicende dei personaggi, umide ed effimere nel loro essere sempre decisive), è divertita e reticente al tempo stesso, talmente incurante, all'apparenza, da far sembrare tutto molto semplice (da qui, oltre che dalle precise scelte sui personaggi e sul modo di presentare gli stessi, il senso di B-side rispetto al grande romanzo sociale che oggi siamo unanimi nell'associare a un Jonathan Franzen).

L'accademia sembra abitare altrove, non certo nel garage dove Luther Stallings - ex star nera di film Blaxploitation (vedi alla voce Quentin Tarantino) ispirati all'estetica di Bruce Lee, reinterpretata però nella consapevolezza afroamericana, che tenta disperatamente di sbarcare il lunario - consuma i suoi progetti di riscatto semi deliranti con la sempre bellissima compagna di un tempo Valletta Moore (gambe mozzafiato e pettinatura afro incredibile, per intenderci). Non certo nella sporcizia della casa di Archy, figlio dell'anziano attore, appena mollato dalla "cazzutissima" moglie Gwen, peraltro incinta al nono mese, dopo aver scoperto l'esistenza di Titus Joyner, figlio illegittimo e adolescente venuto pochi giorni prima a bussare alla porta di casa Stallings per presentarsi a suo padre. Ma anche qui pulsa l'impudicizia irresistibile della grande letteratura. Come dimostra il terzo capitolo di Telegraph Avenue, intitolato Un uccello di vasta esperienza: sedici pagine di pura bellezza senza un punto nelle quali si sente esplodere tutta la passione di Chabon per le parole e tutta la meraviglia, imprevedibile fino a che non ci si va a sbattere contro picchiando forte il naso, che la lettura riesce ancora a regalare.

Nel racconto del volo del pappagallo 58, liberato dopo la morte del suo ineffabile padrone, il musicista Cochise Jones, lo scrittore californiano crea un movimento di camera (tra Wenders e Orson Welles, ma fusi tra loro), una vita in un momento, una chiaroveggenza soprannaturale, una esperienza di morte (per lo meno per lo struggimento dolce e assoluto che, indefettibile, innesca), che rappresentano alcuni dei più validi motivi per cui vale la pena leggere e, ci sia consentito, per estensione anche vivere.