25 maggio 2013

Jep Gambardella, nostro simile nostro fratello

Su La grande bellezza di Paolo Sorrentino
  
Kurtz muore, alla fine di Cuore di Tenebra, ripetendo una parola: “L’orrore, l’orrore”. Muore soffocato dall’immensità della foresta e dalla profondità dell’animo umano. Muore per non poter andare oltre, troppo lontano si era già spinto. E oltre resta solo l’orrore. Quell’orrore che scivola leggero sulla schiena del passeggero di certi taxi notturni, quando il guidatore azzarda una confidenza tagliente, quell’orrore che si crea al culmine di un casting televisivo, figlio della somma di tutte le speranze dei candidati o quando tutte le donne indossano scarpe peep-toe, quelle spaventose calzature fatte apposta perché dalla tomaia spunti, allucinatorio, l’alluce delle signore. In quell’orrore oleoso Kurtz si lascia annegare, mentre Jep Gambardella, lo stanco protagonista de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, ha la forza di respirarlo, anzi di farlo suo, di auto proclamarsi re di questo impero oscuro, intuendo che l’unico modo per sopravvivere all’Idra è, in qualche modo, diventare l’Idra, o, per lo meno, avere la tolleranza di credere che non tutto sia Idra, un po’ come diceva Italo Calvino. E dunque, nel cuore di una Roma che non si è mai allontanata dal tardo impero, in questo geniale performer capace di dare scacco alla Storia, ecco che il giornalista interpretato da Toni Servillo (nessun aggettivo, è già tutto nel copyright dell’attore più-qualunque-cosa in Italia da qualche anno, ma la relazione con Sorrentino è al di sopra di ogni sospetto, e ancora a entrambi siamo grati per Le conseguenze dell’amore), pur incredibilmente lucido, sceglie di organizzare quelle feste fine-del-mondo, popolate di corpi decrepiti e bocche impazzite, kitsch e arrivismo, cafoneria e, sotto sotto, anche un briciolo di tenerezza. Briciole che diventano ingombranti grazie all’occhio del regista, capace di usare la Carrà reinterpretata da quell’essere fantascientifico che è il Dj Bob Sinclair (ricordate le sue pubblicità di una marca di mutande? Ipnotiche come un dipinto di Bacon) per dire, tacendo, una serie di verità che subito diventano assertive come un Laocoonte illuminato dalle torce la notte in cui Napoleone scese al Louvre per ammirarlo, fresco di trafugamento dall’Italia conquistata.




La festa che apre il film, ne verranno altre certo, ma nessuna così repentina, è una lezione su come si dovrebbe pensare, o, traducendolo nel mestiere, scrivere e de-scrivere il mondo. Vengono in mente il contagio professato – sul serio – da gente come Walter Siti o l’empatia professionale di un David Foster Wallace (ecco, Una cosa divertente che non farò mai più ha la stessa qualità di fondo de La grande bellezza; la stessa luce, direbbe forse un pittore poco fantasioso), attitudini che si sublimano e si incarnano nell’abito, sempre che questa sia la parola giusta, indossato da Sabrina Ferilli in un’altra delle innumerevoli occasioni mondane (e folli, nel senso in cui lo sono, per esempio, certe pagine di Moby Dick, ben più, tanto per restare sull’attualità cinematografica, di quelle, per altri versi assolutamente magnifiche, di Scott Fitzgerald). E mai come sotto la direzione di Sorrentino la Ferilli diventa se stessa, si prende in carico il film, se ne fa musa controvoglia, come controvoglia, almeno a sentire René Girard, Amleto mette in atto la propria vendetta, cui non può rinunciare ma cui, al tempo stesso, non vuole dare la propria adesione (ricordate sempre Cioran: “Nessuna delle nostre azioni merita la nostra adesione”, parole di un’importanza che ancora forse non abbiamo capito). Paolo Sorrentino però lo sa, e su questa massima modella, o almeno prova a modellare, il suo protagonista, tenendosi comunque le mani in parte libere per inserire le sue debolezze, le sue imperfezioni, le sue vie d’uscita. Cose che forse depotenziano l’idealtipo di Gambardella, ma pure lo rendono più umano, più vicino al pubblico, già stremato dalla inusitata violenza della ricchezza e del privilegio, dall’inscindibile intreccio tra l’inconcepibilmente brutto e l’insostenibilmente bello, come ben sta a dimostrare la scena – ai limiti del tollerabile – in cui la bambina artista crea, sotto gli occhi infernali degli adulti, il proprio dripping capolavoro, piangendo.

La grande bellezza è un film che ammicca alla televisione, lo fa in un modo che, senza contraddizione, è tanto smaccato quanto segreto: crea quella distanza ironica che gratifica lo spettatore sofisticato, ma, allo stesso tempo, lo solletica in modo voyeuristico, in questo senso con perfetta coerenza con la flánerie solo parzialmente morbosa del suo protagonista, un casto guardone (anche per mestiere) nello spettacolo allucinante della società. In questo calderone visivamente esplosivo, come lo erano stati i titoli di testa de Il Divo, noi rischiamo di perdere il senno come Kurtz, ma a salvarci arriva quella bellezza senza senso che trae scaturigine proprio dall’estremo orrore, che non sono i fenicotteri sul balcone (umano, troppo umano), ma, per esempio, il tavolo da poker notturno per principesse annoiate e decrepite, o la zoppia dell’uomo che ha le chiavi di tutti i palazzi di Roma (e qui non posso non pensare all’agrimensore K.), o ancora nella scena, assoluta, in cui Gambardella incontra, forse per l’unica volta in tutto il film, quella che, con un’approssimazione quasi imbarazzante, possiamo chiamare gente comune. L’assedio della realtà (presunta, ovviamente, molto alla Rembrandt) produce una breccia e il mostro ci si tuffa con tutti i suoi tentacoli, che però il regista recide poco dopo (non subito, l’estetica prima di tutto) con la sua spada cinematografica degna dell’Arcangelo Michele, colui che schiaccia i demòni. Perché il cinema è sogno e solo il sogno ci può dire qualcosa che assomigli, dal profondo della nostra caverna, a un’ombra di (im)possibile verità.

Ci sono, ovviamente, delle debolezze (il ragazzo suicida è noioso, il cardinale di Herlitzka – nella magnificenza del suo interprete – non esce quasi dalla macchietta, salvato solo dalla sua ultima inquadratura, il percorso spirituale di Gambardella è fiacco, la santa è una metafora troppo esplicita della componente ideologica del film), ma non pesano, schiacciati dalla bellezza crudele ed empatica della messa in scena ravvicinata (qui ci sta bene la figura devastata di Serena Grandi, ottimo il suo personaggio, salvo, inversamente proporzionale a Herlitzka, l’ultima inquadratura). Che brilla anche, mi sia concesso l’arbitrario elenco, per una serie vertiginosa di citazioni e ammiccamenti, veri o presunti, a Bellocchio (L’ora di religione, ma pure qualcosa della leggerezza de Il regista di matrimoni), a Nanni Moretti (il ballo nel giardino dopo il matrimonio, quasi La Messa è finita, ma anche il personaggio del vicino di casa latitante che sembra un caimano, ancora una volta alla Walter Siti), a Fellini (straordinaria e onirica la scena con la zebra nel Teatro Marcello), a Bernardo Bertolucci (la sua ossessione per la prima volta, la bellezza quasi urticante del volto della ragazza che chiude il film, prima dei titoli di coda fluviali), a Kubrick (il mantello della Ferilli, la scena nel colonnato prospettico, un altro modo di fare Eyes Wide Shut) e perfino un cameo per Cosmopolis di Cronenberg (quella limousine bianca e attonita persa nella notte romana), ma questo forse in sala non lo ha visto nessun altro…



Sorrentino e Servillo sono talmente bravi da circoscrivere pure Verdone e il suo personaggio, anche lui deboluccio (seppur forse realmente umano, ma chissenefrega direbbe Giuseppe Cruciani) nel finale, ma gustosamente insopportabile (quasi come il suo interprete, con cui, lui mi perdoni, io ho un conflitto insoluto, ma temo sia una forma di cripto identificazione purtroppo) nella prima parte del film. Meraviglioso invece, seppur tecnicamente orrendo (eccola la morale del film! Habemus!) l’accompagnatore della Santa interpretato da Dario Cantarelli, immagine perfetta dei sorrisi violenti e intimidatori dei devoti fanatici che altro non sono che un memento mori, stretto in una camicia che anticipa l’inevitabile apocalisse. Quella fine del mondo che incombe, con la sua bellezza, su una Roma che è solo se stessa, ossia un incubo tout court, nel quale, come dice Jep durante l’ennesima festa in cui la matura platea perde giudiziosamente il controllo, “I nostri trenini sono i migliori, perché non vanno da nessuna parte”.

Post Scriptum.
In ogni caso vince lui, Sorrentino. Perché nonostante tutto si esce dal cinema con la voglia di innamorarsi (“di una donna, di un animale, di una borsa di coccodrillo, di uno straccio d’ideale” diceva Baccini) almeno un’altra volta nella vita.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

17 maggio 2013

Lichtenstein alla Tate Modern: ontologia della retrospettiva

Ultimi giorni a Londra per la grande retrospettiva della Tate Modern dedicata a Roy Lichtenstein, uno dei padri della Pop Art nonché un artista che ha ridefinito il concetto stesso di arte contemporanea. La mostra, ospitata al livello 2 dell'ex centrale elettrica sul Tamigi, resterà aperta al pubblico fino al 27 maggio e, sebbene la Tate sia tassativa nel non diffondere i dati sull'affluenza del pubblico prima della conclusione delle esposizioni, la sensazione è di un grande successo, pur a fronte di biglietti il cui prezzo è allineato con gli alti standard del costo della vita nella capitale britannica: 18 sterline per una tariffa intera. Visitando la retrospettiva, però, si comprende come l'investimento sia assolutamente giustificato, data la sorprendente ricchezza del materiale selezionato in collaborazione con l'Art Institute di Chicago dalle curatrici Sheena Wagstaff e Iria Candela. In sostanza la mostra presenta tutto il percorso creativo di Lichtenstein, scomparso a 74 anni nel 1997, ovviamente in sintesi ma con uno spettro d'indagine votato all'onnicomprensività, il che si traduce in una reale immersione nel lavoro di un artista le cui immagini di fumetti sono entrate nell'immaginario collettivo, ma che, nel corso degli anni, ha affrontato una ben più vasta serie di tematiche, spesso meno conosciute al grande pubblico.

Così, se la sala War and Romance presenta una serie di capolavori del, diciamo così, mainstream lichtensteiniano – dalla "Ragazza che annega del MoMA a M-Maybe del Museo Ludwig di Colonia, da As I Opened Fire dello Stedelijk Museum di Amsterdam al celeberrimo Whaam! della stessa Tate - intorno a loro si muovono una serie di momenti che rappresentano il vero valore aggiunto dell'esposizione londinese, tanto per la documentazione sulla genesi di un fenomeno culturale, rappresentata dai primi fumetti come l'ormai leggendario Look Mickey del 1961, quanto per l'esplorazione di altre applicazione della tecnica pittorica del retino di Lichtenstein, dai silenziosi e commoventi paesaggi marini, uno dei quali è stato scelto per la copertina del catalogo, ai panorami cinesi, dipinti quasi minimalisti che riescono però a trasmettere, ridefinendolo, tutto il magico mistero della pittura tradizionale dell'Impero. E che a farlo sia uno dei padri, mai pentiti, del movimento Pop appare decisamente significativo.



Grande spazio è dedicato alle celebri riflessioni di Lichtenstein sull'arte, con le sue versioni di molti dipinti famosi di altri autori e le pennellate che fanno il verso all'Action Painting, poste subito all'inizio della mostra, sono uno degli esempi più riusciti e particolari. Ma la mostra della Tate dà ampio spazio anche agli Specchi e agli ultimi grandi nudi, in qualche modo un sorridente testamento artistico che riassume tutta la carriera di Roy Lichtenstein.

Per il visitatore che arriva dall'Italia, abituato a un uso sensibilmente diverso della parola "retrospettiva", la mostra della Tate Modern può fare l'effetto di un paradigma definitivo e raramente riscontrabile nel nostro Paese, almeno per quanto riguarda la grande arte internazionale. Certo, la forza e il prestigio del museo inglese, testimoniato da numeri come i 50 milioni di visitatori in 10 anni di vita, sono tra i massimi al mondo, difficilmente eguagliabili in Italia, dove non mancano tentativi coraggiosi, basti pensare a quanto fa la Triennale di Milano, per citare solo un caso, ma dove talvolta si percepisce una certa diffidenza verso il contemporaneo e un approccio all'arte in generale che risente ancora di considerazioni – come la celebre frase "con la cultura non si mangia", la cui ultima attribuzione certa è all'ex ministro Giulio Tremonti – che probabilmente non aiutano neppure a poter pensare più in grande. La retrospettiva di Londra su Roy Lichtenstein è un esempio cui, chi volesse provare a cambiare lo scenario anche nel nostro Paese - a tanti livelli, compreso quello del sostegno economico a certi eventi - può provare a fare riferimento. E fino a fine mese si potrà ancora ammirare a due passi dal Millennium Bridge.


06 maggio 2013

Ricuperati, un romanzo e la vertigine del presente

Il presente, per definizione, è un concetto sfuggente e impalpabile, come una collezione di sabbia in una clessidra. E forse l’unico modo per coglierlo davvero in un romanzo – operazione che può fare sì che l’opera valichi l’invisibile e decisivo confine tra l’ordinario e il significativo – è adeguarsi alla stessa natura sfuggente, scegliendo di non dare riferimenti, ma puntando dritto all’essenza di alcune situazioni. In Italia lo hanno fatto, per esempio, Occidente per principianti di Nicola Lagioia e gran parte dei romanzi di un maestro come Walter Siti. Adesso lo fa anche La produzione di Meraviglia, secondo romanzo di Gianluigi Ricuperati, uno scrittore che sembra stare ai margini di quella cosa – piuttosto stantia, se ci è concesso – che è la cosiddetta società letteraria, ma che riesce a cogliere, fulmineo e spesso visionario, i concetti chiave del nostro tempo, entrando a gamba tesa su argomenti, che siano il denaro o le chat per lesbiche, che normalmente non trovano adeguata cittadinanza nella grande letteratura della patria del Manzoni.

Attraverso la storia di Remì, campione di poker muto e pilota d’aereo, e di Ione, ragazza inquieta con un padre che da ingombrante diventa addirittura galeotto, Ricuperati riesce a tessere un racconto che è contemporaneamente lieve – e quindi, come si diceva prima, decisamente sfuggente – ma che è anche denso, avvolgente come il gioco che instaura con il lettore, perso in una serie di situazioni e immagini che, per l’appunto, hanno spesso la qualità di produrre meraviglia. Immagini e gioco sono due parole chiave per capire il romanzo. La prima, lapalissianamente, perché a tre quarti del libro compare una sezione illustrata, dove il grafico Marco Cendron ha creato, in una vertigine di rimandi metaletterari, le carte da gioco modificate ad arte che il protagonista della storia usa per comunicare i suoi messaggi, tanto criptici quanto profondi. La seconda parola, gioco, è fondamentale e, come tutto il libro, si muove attraverso molteplici possibili livelli di interpretazione: da quello che nasce dal fatto che, in fondo, per quanto riguarda la trama il romanzo di Ricuperati non fa che ripeterci che “è successo qualcosa” (senza quasi mai dirci davvero cosa), fino alla dimensione esistenziale che il gioco del poker assume nella vita di Remì, considerazione questa che spalanca le porte alla filosofia (citare Wittgenstein è sempre molto cool, ma in questo caso quasi inevitabile) e a ragionamenti (“da quarta fila” direbbe Baricco) sul valore universale che assumono le parole una volta liberate dall’uso comune e bisunto, parole che diventano, da sole, vaste porzioni di realtà…



Parole che sono l’unica e imprescindibile sostanza della parte più importante del romanzo, la scena di un gioco, ovviamente, il mind game che va in scena tra Remì e Ione e che dimostra quanto sia profonda la capacità di lettura dei meccanismi sociali di Ricuperati e quanto riesca a renderli in un modo che potemmo arrivare a definire assoluto. Perché la scena del gioco, una dialogo via chat tra l’uomo e la donna che è un manifesto implicitamente esplosivo su cosa sono i rapporti interpersonali oggi, su come la tecnologia influisce sulla nostra vita, su come ogni volta non possa che essere la prima volta, tanto strutturalmente gli esseri umani sono, Kundera ci benedica, incapaci di qualcosa che non sia folle unicità. (Qui, davvero, siamo lontani dal panorama italiano, e i riferimenti che vengono in mente sono poderosi e anglofoni: la precisione feroce di un Franzen o di un Amis, la brutalità magnifica di un DeLillo). Nelle pagine del gioco, che sembrano pagine accessibili, conosciute (in realtà, direbbe Foster Wallace, la loro meraviglia è ben nascosta in piena vista), avviene invece uno dei miracoli della letteratura: la scomparsa del mondo, di tutto ciò che non siano quelle parole virtuali che si alternano algide su uno schermo. Parole che scatenano il primordio dell’umano, parole che sigillano la distruzione, ma anche la contemporanea ricostruzione, di ciò che per convenzione chiamiamo realtà.