27 agosto 2013

Michael Chabon ovvero perdersi nel diluvio di storie

A proposito di Telegraph Avenue

La definizione di "grande romanzo americano" è ormai ufficialmente abusata, per quanto si possano elencare diverse opere che legittimamente ambiscono a questo titolo, al tempo stesso il più lusinghiero e il più vago della pubblicistica letteraria. Meno battuta, forse, è però la via che va alla ricerca di quei libri che si rivelano complementari ai capolavori ufficiali, che in qualche modo rappresentano l'altra faccia dei monumenti. In questo senso i romanzi di Michael Chabon, un premio Pulitzer che non si prende troppo sul serio (e che nelle foto dei quotidiani viene sempre proposto in una versione giovanile, mentre in realtà porta con grande leggerezza e intensità i suoi 50 anni), sono una sorta di mappa del tesoro per i cercatori di questa America letteraria che ama i territori più ombreggiati, gli angoli di periferia e i cavalcavia dove, e forse più che mai, scorre comunque il Sogno a stelle e strisce, oltre che il suo racconto.

Avventurarsi nell'ultimo, incontenibile, Telegraph Avenue (Rizzoli), storia impossibile da riassumere della comunità - soprattutto afroamericana, ma non mancano meravigliosi ebrei - che vive nell'omonima via di Oakland nel 2004, mentre un megastore dell'intrattenimento minaccia la sopravvivenza di un raffinato negozio di dischi di quartiere, è un'esperienza che rinnova lo stupore di lettura di romanzi come Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, o Il sindacato dei poliziotti Yiddish. Tra pazzesche scene di parto, iconografie da B-movie anni Settanta, dirigibili neri dove si consumano pasti luculliani e tante citazioni musicali, Chabon costruisce - e il verbo rende perfettamente il senso di un'opera che dimostra in maniera inoppugnabile come il massimo dell'apparente libertà nasca solo dal massimo della cura strutturale di ogni singolo dettaglio - un mondo completo e autosufficiente, una palla di vetro natalizia nella quale, guardando bene, magari pure con gli occhi velati di uno pseudo-Borges, dietro l'apparenza kitsch, si può essere così fortunati da vedere "tutto". Ma, in fondo, senza rendersene conto.

L'epopea degli Stallings e dei Jaffe, due famiglie intorno cui si incardinano miriadi di altre storie (e la sensazione è quella di una doccia che inonda il lettore, dove l'acqua è la lingua e le gocce sono le singole vicende dei personaggi, umide ed effimere nel loro essere sempre decisive), è divertita e reticente al tempo stesso, talmente incurante, all'apparenza, da far sembrare tutto molto semplice (da qui, oltre che dalle precise scelte sui personaggi e sul modo di presentare gli stessi, il senso di B-side rispetto al grande romanzo sociale che oggi siamo unanimi nell'associare a un Jonathan Franzen).

L'accademia sembra abitare altrove, non certo nel garage dove Luther Stallings - ex star nera di film Blaxploitation (vedi alla voce Quentin Tarantino) ispirati all'estetica di Bruce Lee, reinterpretata però nella consapevolezza afroamericana, che tenta disperatamente di sbarcare il lunario - consuma i suoi progetti di riscatto semi deliranti con la sempre bellissima compagna di un tempo Valletta Moore (gambe mozzafiato e pettinatura afro incredibile, per intenderci). Non certo nella sporcizia della casa di Archy, figlio dell'anziano attore, appena mollato dalla "cazzutissima" moglie Gwen, peraltro incinta al nono mese, dopo aver scoperto l'esistenza di Titus Joyner, figlio illegittimo e adolescente venuto pochi giorni prima a bussare alla porta di casa Stallings per presentarsi a suo padre. Ma anche qui pulsa l'impudicizia irresistibile della grande letteratura. Come dimostra il terzo capitolo di Telegraph Avenue, intitolato Un uccello di vasta esperienza: sedici pagine di pura bellezza senza un punto nelle quali si sente esplodere tutta la passione di Chabon per le parole e tutta la meraviglia, imprevedibile fino a che non ci si va a sbattere contro picchiando forte il naso, che la lettura riesce ancora a regalare.

Nel racconto del volo del pappagallo 58, liberato dopo la morte del suo ineffabile padrone, il musicista Cochise Jones, lo scrittore californiano crea un movimento di camera (tra Wenders e Orson Welles, ma fusi tra loro), una vita in un momento, una chiaroveggenza soprannaturale, una esperienza di morte (per lo meno per lo struggimento dolce e assoluto che, indefettibile, innesca), che rappresentano alcuni dei più validi motivi per cui vale la pena leggere e, ci sia consentito, per estensione anche vivere. 

Nessun commento: