29 luglio 2013

L'epilogo che ha scelto. David, la sua biografia e i miei dilemmi

“Ogni storia ha un inizio”, scrive il giornalista D.T. Max in apertura del suo Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, la prima biografia completa di David Foster Wallace che esce in Italia per Einaudi Stile Libero. Tutti, di solito, pensiamo alla fine della storia dello scrittore, quel garage dipinto di rosso dove, il 12 settembre 2008, ha deciso di farla finita. Max invece ha il merito, non da poco, di ragionare, pressoché totalmente, sugli episodi biografici e sulla storia dei libri di Wallace prima e soprattutto non necessariamente alla luce di quel suicidio che ha privato l’America e il mondo di uno scrittore tanto geniale quanto sofferto. Certo, restano alcune perplessità in qualche modo filosofiche (wittgensteiniane verrebbe da scrivere insieme al giovane DFW, e dunque intrinsecamente anche capziose), legate al fatto che si possa davvero dare l’dea dell’intera vita di una persona – per di più complessa come indubbiamente era Wallace – attraverso dei singoli episodi documentati. E tutto il resto? Verrebbe da chiedersi. Il resto è necessariamente silenzio? Forse la vita di una persona passa soprattutto attraverso questi “silenzi” e nel libro si trova un evidente esempio di quanto poco si possa catturare delle emozioni di un’altra vita quando Max riassume un periodo di ricovero dello scrittore in una struttura psichiatrica con queste sei parole: “Fu dimesso due settimane più tardi”. C’è grande misura e pudore in questa frase, e si tratta di pregi generali del libro, ma c’è anche una specie di buco nero biografico su un periodo che potrebbe avere avuto molta importanza per Wallace…

Fatte queste premesse metodologiche, resta una biografia che è in grado di trattare una materia molto pericolosa con cura e attenzione, che ha poche cadute di stile (e sarebbe facile, perché DFW era uno scrittore capace di suscitare grandi passioni) e che ragiona senza prese di posizione ideologiche sulla complessità dell’opera e della personalità dell’autore di Infinite Jest. Per il lettore appassionato di Wallace, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, ha un valore ambivalente: da un lato è una miniera di citazioni e di materiale tratto soprattutto da fonti non edite, come le lettere a Jonathan Franzen e a Don DeLillo, in particolare quelle al monumentale autore di Underworld, cui DFW sembrava scrivere con altissima frequenza. Dall’altro lato è un percorso doloroso, perché Max tenta, per sua stessa ammissione, di essere il più neutro possibile, e quindi tende a non nascondere, a far emergere le contraddizioni e le incoerenze, a parlare di sofferenza quando di sofferenza si tratta. Ci sono gli elettroshock e gli psicofarmaci, i tentativi di sconfiggere le dipendenze e la drammatica consapevolezza che “la sua eccezionale intelligenza gli era d’impiccio. Nel processo di riabilitazione serviva modestia, non acume”. Ci sono però anche tanti momenti di serenità e di grandezza letteraria (“Wallace si presenta come un abitante di quel luogo che i minimalisti avevano solo saputo indicare”, notava un recensore de La ragazza dai capelli strani), dettagli minimi e furbe, ma perfino commoventi, strategie di scrittura, ricorsive come molte delle idee e delle situazioni wallaciane.

Particolarmente affascinante il fatto che, pur nel respiro limitato di una biografia dedicata alla vita di un uomo morto a 46 anni, si possano percepire molti cambiamenti di atteggiamento, di idee, di posizioni intellettuali, anche di finalità della scrittura. Il che è sintomo di una mente brillante (troppo?) e perennemente in cerca di nuovi stimoli, ma anche – e in questo agisce sottotraccia la capacità rara di D.T. Max di astenersi da ogni sfumatura di ideologia – di una fragilità costante, che si manifestava nell’ossessiva ricerca da parte di Wallace di nuove avventure sentimentali oppure nell’insoddisfazione verso le opere precedenti e nel terrore verso quelle ancora da scrivere. E in quest’ottica Il Re pallido, il romanzo incompiuto poi pubblicato postumo – che per molti lettori è un capolavoro, ma che per DFW fu un reale strazio creativo, è tra i motivi di frustrazione che potrebbero averlo spinto a salire su quella sedia in garage. Ma, come giustamente fa Max, questa è una scena che resta ai margini di una biografia che vuole essere la storia di un uomo e di uno scrittore che ha tentato di vivere e di scrivere, lasciando un segno profondo e quasi unico nella cultura contemporanea, non solo degli Stati Uniti.

Chiudendo il libro, e lo si chiude con un naturale moto di tristezza perché forse più di un lettore aveva segretamente sperato in un finale diverso, ci si convince di quello che proprio Franzen aveva già scritto, con uno sforzo di dolorosa ed empatica onestà, ossia che David Foster Wallace era una persona che è stata a lungo malata, e che non era in nessun modo quel “santo folle” che una certa pubblicistica facilona ha voluto dipingere partendo dalla sua bandana o dai suoi bermuda. Ma sotto la malattia c’era anche “un genio sensibile e sincero col freno a mano tirato” e pure uno scrittore che, accanto alle intuizioni straordinarie, sapeva lavorare di mestiere, talvolta inventando gli aneddoti più gustosi o saccheggiando la vita di chi gli capitava di incontrare. E giustamente in una famosa intervista Wallace aveva detto che il senso del suo scrivere stava fondamentalmente nel tentativo di spiegare che cosa volesse dire essere un “fottuto essere umano”. Forse lui ci è riuscito, forse no, ma questa biografia ci ricorda che lo stesso DFW era consapevole del fatto che “scrivere roba sulla vita vera è quasi impossibile, semplicemente perché è troppa”. Un’osservazione che, se alle parole “vita vera” si sostituiscono le parole “biografia di David Foster Wallace”, getta una luce ambigua e straniante anche sul libro che avete in mano. Forse l’ultima magia, qui lasciatemelo dire, metaletteraria dello scrittore nato a Ithaca (e ogni riferimento alla figura di Ulisse è in questo caso implicita, ma voluta).

Avevamo iniziato con la prima frase del libro, chiudiamo con l’ultima: “Non era questo l'epilogo che ci si augurava per lui, ma questo è l'epilogo che ha scelto. Prima di dire, questa volta con convinzione, che il resto è silenzio, anche D.T. Max, come un altro wallaciano di ferro come Sandro Veronesi, ricorda in un’intervista che “il suicidio non era l’unica maniera in cui le cose avrebbero potuto finire”. E in un’altra versione della storia Wallace potrebbe essere ancora vivo.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

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