16 marzo 2013

Il talento di DeLillo, racconti come una summa

Il talento di Don DeLillo. Di questo tratta la raccolta di racconti L’angelo Esmeralda (Einaudi), che riunisce short story del grande scrittore americano scritte tra il 1979 e il 2011 e pubblicate ora per la prima volta in un volume che è antologico in più di un senso. Se infatti mette uno accanto all’altro testi tra loro cronologicamente molto lontani, e quindi è quasi una archeologia della scrittura di DeLillo (oltre che un’opportunità di scoprire quanto questa voce fosse già straordinaria negli anni Settanta, come peraltro sanno bene i lettori di un romanzo come Giocatori), ma è pure una campionatura dei suoi grandi romanzi, che nei racconti appaiono, in un certo senso, rivisitati. Se Esmeralda e suor Edgar sono personaggi che ritornano nel capolavoro Underworld (e il racconto che dà il titolo alla raccolta è di soli tre anni precedente al romanzo monstre che lo ha poi inglobato), più sottili sono i legami, per esempio, tra il primo racconto, Creazione del 1979 e le riflessioni sulla coppia (e sulla società sconnessa che la circonda) già magistralmente affrontate proprio in Giocatori del 1977. Falce e martello del 2010 richiama alla mente il profetico Cosmopolis del 2003: se la distanza cronologica appare significativa, in realtà in mezzo si colloca lo spartiacque di quella crisi economica globale che il romanzo aveva, in maniera quasi stupefacente, previsto anni prima e che ora DeLillo può affrontare con tutta l’esperienza che la realtà (per come viene comunemente intesa) ha aggiunto alla sua allucinata visione. Baader-Meinhof (2002), infine fa pensare chiaramente alle ambientazioni del quasi contemporaneo Body Art (2001), con anche una straniante contiguità con il prologo artistico dell’ultimo romanzo finora pubblicato dallo scrittore americano Punto Omega del 2010.



Un elenco non è esattamente la cosa più divertente che si possa scrivere, ma è utile per capire dove collocare, nel panorama mentale del singolo lettore più che in un qualche posto codificato, questa raccolta di racconti, che possono anche sembrare un condensato della grandezza dello scrittore. Ovviamente il respiro dei grandi romanzi – e oltre a quelli già citati non si possono non ricordare Rumore Bianco, I Nomi e Mao II – non può soffiare anche nelle poche pagine delle short story, ma la lucidità di DeLillo e soprattutto la sua lingua si mostrano qui, se possibile, ancora più splendenti. Tanto che in più di un passaggio dei racconti – e nello specifico si possono citare Creazione e L’angelo Esmeralda – il linguaggio, anche nella bella traduzione di Federica Aceto, sembra letteralmente scatenarsi e avvolgere il lettore in quella vertigine che è un po’ il marchio di fabbrica di quello che, senza dubbio, è uno dei più grandi scrittori al mondo. “Le cose più belle dei posti nuovi – leggiamo in Creazione – andavano protette dalle nostre stesse grida di gioia. Ci saremmo tenuti dentro le parole per settimane o forse per mesi, in attesa di quella serata mite in cui un commento casuale ci avrebbe riportato alla memoria quell’esperienza”.

Che siano turisti che non riescono a lasciare un’isola tropicale o astronauti in volo sopra la Terza guerra mondiale, che siano broker in un mondo esploso o suore che cercano la speranza anche nei luoghi più oscuri delle periferie geografiche e morali, tutti i personaggi di questi racconti di DeLillo mantengono dritta la barra dell’auto-indagine, di quel “pensarsi” che è cifra (shakespeariana) e definizione della loro grandezza. Una grandezza che vive di sospensioni e che si avventura talvolta, come nel caso del “miracolo” di Esmeralda (il volto della bambina uccisa che compare su un cartellone pubblicitario quando questo viene illuminato dalle luci di un treno), su un terreno instabile ma fecondo, quello del ragionamento sulle possibilità. Che sono in primo luogo quelle della grande letteratura, ma anche quelle di una ricerca di senso, comune a tutti gli uomini. E come l’acrobata d’avorio dell’omonimo racconto, anche il lettore di DeLillo cerca di “sfuggire alla sensazione di essere trasportato suo malgrado verso qualche istante fisso nel tempo”. 

Così, sospesi. Dove tutto è semplicemente perfetto.



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