17 gennaio 2012

Quando Beckett divenne Beckett: torna "Malone muore"

“Ho appena trascorso due giornate indimenticabili delle quali non sapremo mai nulla, siamo troppo distanti, o troppo a ridosso, non so più”. Poche frasi, con tale evidenza e brevità, hanno reso in modo più efficace l’assenza, quel concetto sfuggente eppur devastante, che ha fatto da stella polare alla grande letteratura novecentesca, da Kafka a Primo Levi a W.G. Sebald, passando per il più mitteleuropeo dei contemporanei italiani, Claudio Magris. Al centro di questo campo (e la parola non è casuale, nel suo tragico oscillare tra Adorno e Roberto Bolaño), si colloca, singolo nella sua grandezza, Samuel Beckett, probabilmente concentrato a scrutare un paesaggio che ha sì raggiunto un livello preoccupante di aridità, ma che è ancora popolato di coscienze, dire corpi potrebbe essere fuorviante, che vanno in cerca della perdurante umanità che, comunque, alberga dentro di loro. Questo campo, che potremmo immaginare anche come un camposanto (“Vorrei che il mio amore morisse / che sul cimitero piovesse…” scrive Beckett in una memorabile poesia in francese) diventa talmente grande, o talmente piccolo, da arrivare in entrambi i casi ai confini del tutto-niente. E Beckett lo sa benissimo che “niente è più reale del niente”. Percui questo deserto, questo infinito universo concentrazionario senza carcerieri, diventa una mappa, probabilmente l’unica davvero possibile, di quell’idea antinomica che Kant chiamava il mondo.

Samuel Beckett, dunque, è in qualche modo un creatore dell’unica realtà possibile che, nella sua stagione più grande, ha agito per drammatica sottrazione, puntando al midollo pulsante e talvolta scabroso dell’umanità. Un processo che, per quanto sia un riferimento arbitrario, è probabilmente cominciato con Malone muore, il romanzo in francese del 1951 che segna una cesura nella forma della narrazione di Beckett – che diviene “mobile” e segna la morte del personaggio in senso tradizionale – e apre la strada ai successivi capolavori teatrali come Aspettando Godot, Finale di partita e Giorni felici. La disgregazione delle personalità e dei corpi prende piede con il morente eterno Malone, prigioniero in un letto in una stanza che governa con il suo bastone, ma che assume, di volta in volta, dimensioni dal soffocante all’infinito. E anche la narrazione di storie, il passatempo con cui Malone inganna l’attesa (un altro dei temi cardine di Beckett, illuminato da una profonda luce biblica) dell’unico evento inevitabile (ma che il romanzo mostra avere anche un certo grado di evitabilità), si rivela un gioco che cambia mentre ci stai giocando, con il personaggio Saposcat, che diventa Macmann e che non approda a nulla. Quindi molto probabilmente proprio dove Samuel Beckett voleva arrivare.

La quarta di copertina della bella edizione della collana Letture Einaudi riporta una frase di Antonio Moresco che parla di “un libro che cominciava dove gli altri finivano”. A ben guardare si potrebbe spingersi anche oltre Moresco, definendo Malone muore un libro – ma, come nota Gabriele Frasca nella ricca prefazione, anche la definizione di libro è a sua volta messa in discussione – che esisteva dove gli altri non erano ancora stati creati. Alla fine, probabilmente, verrà la morte, ma Beckett ci insegna che non avrà occhi. O meglio, avrà i nostri stessi occhi. Senza sorprese, senza compagnia, senza consolazione.

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