30 gennaio 2012

Harold Bloom, vertigine della critica

Leggere Harold Bloom, il critico letterario probabilmente più noto al mondo nonché temerario e controverso teorico del Canone occidentale, è un'esperienza sempre molto intensa. La sua passione militante, la sua venerazione per Shakespeare, "l'inventore dell'umano", la sua costante vis polemica verso molti colleghi e numerosi altre qualità prominenti del suo lavoro ne fanno un personaggio unico e difficilmente imitabile. Ma ciò che più conta, al di là dell'esuberanza, sono le sue opere, ormai sempre più dei labirinti nei quali il lettore comune (forse l'utente finale della riflessione bloomiana, forse no) finisce per perdersi come avviene ad Alice quando cade nel Paese delle Meraviglie. Perché di questo si parla, anche nell'ultima monumentale fatica di Bloom, Anatomia dell'influenza, pubblicato in Italia da Rizzoli: ossia dello stupore e della incredibile magia di ogni grande opera letteraria. Ovviamente secondo il metro di giudizio, autorevole ma non sacrale, del critico americano.

E in Anatomia dell'influenza, saggio che si fregia anche del meraviglioso sottotitolo La letteratura come stile di vita, Bloom parla a lungo di questo concetto chiave dell'intera sua opera, ma come è nella sua natura irrefrenabile, anche divaga, ondeggia, si trasfigura, arrivando a creare un vero e proprio poema in prosa (modernista, s'intende) sull'amore letterario e sul valore concreto della poesia, secoli fa così come oggi. A ben guardare, e qui sta una buona parte della sua grandezza, Bloom scrive sempre lo stesso libro, ma ogni volta è capace di farlo in modo diverso e disorientante. L'idea di partenza è borgesiana (i grandi sono in grado di influenzare anche i loro predecessori) e Bloom vi ci si tuffa a capofitto, sciorinando centinaia di pagine su Shakespeare che, pur nella loro articolazione complessa e talvolta cervellotica, si rivelano riflessioni profonde sulla relazione tra la letteratura e la nostra vita: "Se Falstaff e Amleto sono illusioni - si chiede il critico - che cosa siamo voi e io?". In sostanza l'affascinante tesi di Bloom è che gli autori universali sono stati capaci di creare dei mondi che a loro volta hanno creato noi. E in questo universo di finzioni riflesse che creano la "realtà" (ma le virgolette sono d'obbligo), è lo stesso Bloom ad ammettere: "Ho capito che la mia funzione è aiutarvi a smarrirvi".

Dopo aver chiarito en passant che "confondere Shakespeare con dio è fondamentalmente legittimo" e che "Amleto si ribella all'apprendistato sotto Shakespeare e organizza la propria ribellione contro il dramma con una determinazione estrema, che non ha rivali nella storia del teatro" (e già qui di carne al fuoco ce n'è parecchia), Bloom entra in una fase che potremmo definire estrusiva, nella quale la figura del critico finisce con il sovrapporsi a quella di un altro muro portante della sua costruzione culturale: Walt Whitman, che - insieme soprattutto a Wallace Stevens e Hart Crane - diventa il tramite per una lunga e dettagliatissima apologia della poesia, forse in ultima analisi il vero grande e imprescindibile amore di Harold Bloom. Che però è un uomo abbastanza saggio ed esperto del mondo da sapere che gli amori in una vita sono tanti e le classifiche (e pure i canoni) hanno senso certo, ma fino a un certo punto. Perché se "la letteratura non è solo la parte migliore della vita, ma anche la forma stessa della vita", tutti noi, quelli che hanno letto un milione di libri insieme a quelli che non sanno nemmeno parlare, per dirla con De Gregori, siamo consapevoli che la vita (e la letteratura, che ne è immagine e proiezione) è una grandezza in fondo insondabile, alla cui essenza possiamo solo ambire, ma senza mai, per fortuna, arrivare.

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