04 ottobre 2011

Perugia, un viaggio nella (ir)realtà - Cronache da un processo

C'è vento, come pare accada spesso, a Perugia la sera prima della camera di consiglio della Corte che dovrà pronunciare la sentenza di secondo grado sull'omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata il 1 novembre del 2007. C'è vento, e per le strade ondivaghe della città umbra si muove una gioventù diffusa, che sembra tenere a freno a fatica la propria energia. Sarà la suggestione del momento, saranno tutte le storie torbide che qualcuno - ma chi mi viene da chiedermi, fermo davanti alla fontana più famosa dalla città, sinistramente circondata da una cancellata che è una minaccia da film gotico - ci racconta dal giorno dopo quel delitto. Una storia fatta, come tutti noi vogliamo, di sesso sfrenato, pulsioni oscure e, non potendo più fare a meno di gialli e serie tv sul crimine, un omicidio e una - possibilmente bella e giovane - vittima. Eppure, qualcosa di sotterraneo vibra, ed emette segnali inquietanti, che viaggiano però al di fuori - al di sotto, per meglio dire - dello spettro visibile. Qualcosa che assomiglia a una catastrofe imminente, che non ci sarà - perché anche la catastrofe deve essere narrazione e non c'è nulla di più definitivamente anti-narrativo dell'apocalisse… (perché la guerra atomica si è radicata così tanto nell'immaginario collettivo di almeno due generazioni? Perché non è successa, altrimenti non ci sarebbe stato più neppure l'immaginario collettivo…) - ma che incombe, come nuvole bluastre in basso nel cielo, sul centro storico di una delle tante città impossibili dell'Italia eternamente votata alla provincialità.


Di notte, nel mio hotel, i pavimenti scricchiolano, e forse si agitano anche i materassi, un piano più sopra, prima che cali un silenzio troppo definitivo per essere rassicurante. Poi arriva l'alba, che porta con sé il ruggito della massa critica dei media di tutto il mondo, ammassati fuori da un tribunale nascosto dentro la pietra medievale. E proprio nel contrasto tra il nostro essere così riconoscibili e uniformemente up-to-date (stesse camicie, stessi blackberry, stessi MacBook con chiavetta per navigare a banda larga, certo poi i big americani stanno tra gradini sopra, ma partono, pure loro, da questa base) e l'assurdità atemporale del contesto nasce quel senso di distonia liquida che, mi rendo improvvisamente conto, è la vera qualità - la forma direbbero gli aristotelici - di tutta questa storia. Noi questa mattina non siamo qui… e questo è l'unico modo per esserci, per raccontare quello che stiamo per vedere, per non pensare che tutto, ma proprio tutto, sia un circo mendace del quale io per primo sono un, per quanto irrilevante, tassello.


Dentro, nelle viscere del venerando palazzo, si estende, come un tumore, l'Aula. E sotto il muro parossistico delle telecamere e dei loro poderosi cavalletti, accanto all'incredibile leggerezza con cui i colleghi anziani attraversano - abituati da anni non c'è dubbio, ma quanto insopportabile vezzo da mestieranti - l'orrore di cui si discute (sicuramente l'unico modo per sopravviverci, in quella palude), accanto a tutto questo c'è una gabbia e da quelle sbarre - metafora scadente mi rendo conto, ma è andata così - osservo per la prima volta di persona, o meglio, quasi sempre mediato dal monitor della telecamera, che non è la stessa cosa - i volti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito che attendono di fare l'ultimo appello alla Corte e, soprattutto, la sentenza. "Hanno paura" penso. Ed è l'unica cosa che riesco a focalizzare, mentre cerco di non ascoltare quella corda morbosa che mi riecheggia nell'orecchio interno e chi mi vorrebbe spingere a guardarli come si guarda una celebrità sportiva, come si guarda un sito porno, come si guarda ogni tanto la nostra immagine nello specchio dell'ambizione alla fama, tanto più reale quanto modesta. "Hanno paura" penso, ma quando la ragazza per un attimo si volta e guarda in camera, alla pietà umana subentra il serpente, biblico e assurdo, del compiacimento professionale. Sono lì per quello, mi pagano per quello. Ma in un cantone della coscienza il disagio mi resta addosso, come un miasma sottile che molte ore dopo mi laverò, con foga leggermente maggiore del consueto, sotto la doccia.


Il resto è cronaca, dubito che diventerà storia, ma chi può dirlo. E quella piazza di curiosi che ondeggiava in attesa della sentenza - con una rabbia educatamente sepolta sotto l'indifferenza di prassi - quella movimentazione di individui alla ricerca dell'affermazione della propria esistenza (in questo li guardavo con affetto postmoderno, fingendomi forte della mia convinzione che in fondo - per dirla un po' alla Hume, un po' alla Sebald - noi raramente esistiamo, di certo non stasera) brillava della stessa alta definizione dei telefilm in digitale, tanto tecnicamente perfetti da far passare in secondo piano il contenuto. Esattamente in linea con ciò che tutto il mondo collegato in diretta tv si aspettava da noi, qui e ora in questa piazza. E anche i "vergogna, vergogna", diligentemente gridati al momento giusto e altrettanto diligentemente filmati e spediti in redazione in tempo quasi reale, somigliano più alla battuta prevista dal copione che a rabbioso moto della piazza. Certo, la storia insegna che la piazza la ghigliottina (altrui ovviamente) la vuole sempre veder calare sulla testa del potente (in questo caso la celebrità, perché non esiste altra definizione) di turno. Certo la nostra Storia - con la maiuscola - sarebbe stata diversa se un'altra folla avesse gridato "Gesù!" e non "Barabba!" (forse sarebbe stata anche "migliore" dice l'iconoclasta infantile che alberga nel mio cervello). Ma in quel disegno provvidenziale la folla doveva gridare il nome del ladrone, era scritto. Così, mutatis mutandis, questa sera la piazza perugina doveva girare "vergogna!", era scritto. Stavolta non in un libro sacro, ma nella comunque potente mitologia dell'essere-per-lo-schermo contemporaneo (la definizione è semplicistica, in realtà siamo andati oltre Camus, e il rapporto si è fatto più articolato e problematico, con momenti di reciprocità meno schematici). E quella furia sotterranea che ho intravisto la sera prima - e allora mi aveva spaventato - adesso - camicia stropicciata, badge pendulo, occhiaie infinite, fermo in mezzo ai resti di una festa pagana - mi pare essere l'unica cosa vera, insieme al cavo di rete che mi ha permesso di allestire un proto-studio nella mia camera d'albergo, che ho incontrato in questi due (o forse infiniti) giorni a Perugia.