12 settembre 2011

David Foster Wallace e noi (tre anni dopo)

di Leonardo Merlini

1. The Funeral

“La Storia è sempre prima di tutto una scelta e i limiti di questa scelta”[1], scriveva Roland Barthes qualche decennio fa pensando al rapporto tra la letteratura e il tempo in cui questa aveva la ventura di manifestarsi. Oggi, a tre anni da quel 12 settembre del 2008 che è stato l’ultimo giorno della vita di David Foster Wallace, viene da domandarsi quali siano stati i limiti della sua scelta, apparentemente definitiva e, in un certo qual modo, totalmente libera, pur nella sua complessità tragica[2]. Usare la parola infinito sarebbe troppo semplice e bibliografico, e allora possiamo pensare, come fa Sandro Veronesi[3] che se avesse avuto una seconda chance, David “non lo avrebbe fatto”, oppure che negli infiniti mondi postulati dal realismo modale del filosofo David Lewis - tutti mondi possibili esistono concretamente, anche se ciascun mondo è del tutto impossibilitato dal comunicare in qualsivoglia mondo con gli altri - ce ne sia uno dove DFW non si è suicidato, magari decidendo all’ultimo momento di scendere da quel drammatico gradino (o sedia, o tavolo che fosse, non lo so, non mi interessa saperlo), come cantava Sergio Caputo in un brano ingiustamente sottovalutato[4], e perciò ha continuato a scrivere romanzi e racconti, e ha lasciato The Pale King ancora ad attendere in garage, chissà per quanti anni. E quella sera sua moglie Karen Essex lo ha trovato stranamente sorridente in poltrona con i i suoi cani vicino, mentre pochi minuti dopo una consegna a domicilio ha portato in casa Wallace una gustosa cena orientale ancora ben calda...

Se crediamo a Lewis[5] oggi questo anniversario assume forse una leggera sfumatura meno triste, pur nell’incomunicabilità di quella speranza statistica, peraltro ambivalente[6]. Ma se non vogliamo perderci in una ricerca onanistica della consolazione a qualunque prezzo, non possiamo che prendere atto di una realtà del nostro qui e ora, della nostra assai limitata capacità di sfruttare le potenzialità del cervello umano, dell’unica opportunità che, allo stato attuale delle nostre capacità cognitive e al netto dalle speranze di carattere religioso: e la realtà è che David Foster Wallace, uno scrittore di genio, è morto e quello che oggi possiamo fare, stringi stringi, non è altro che una riedizione, ovviamente meno spettacolare - sia detto con assoluto rispetto - del funerale realmente andato in scena poco meno di tre anni orsono[7]. Ma questo dovrebbe essere un funerale alla “Back To Black” di Amy Winehouse, o meglio, un funerale al quale tutti i partecipanti arrivino leggermente ubriachi, pur nella sincera serietà del loro dolore. Un funerale che abbia la stessa forza evocativa di quello - metaforico e indimenticabile - che Diego Armando Maradona ha fatto a se stesso una sera su un palco circondato dagli amici e che Emir Kusturica ha così indelebilmente fissato con la sua cinepresa. Un Diego grasso e con gli occhi tristi canta, circondato da altri ex calciatori e da diversi amici La Mano de Dios, una canzone meravigliosamente subdola che celebra lui stesso, davanti alla moglie e alle figlie con gli occhi lucidi. Finisce con un lungo e commovente collettivo familiare sul palco, nel segno di un mito che non muore e di un uomo che dice, festosamente ma inesorabilmente addio a ciò che era stato[8]. Ecco, questo spirito metà argentino e metà balcanico - due versanti egualmente tragici e propensi al melodramma - dovrebbe sostenere il nuovo, ennesimo, funerale di David, prima che tutto si trasformi in un ballo di fantasmi ubriachi su un’isola che certamente è esistita ma di cui, col tempo, si sono perse le mappe[9].

2. Losing My Religion

David Foster Wallace è stato anche un membro di quelle che Michael Stipe e Douglas Coupland[10] hanno definito la prima generazione cresciuta senza religione. E paradossalmente, o forse no se siamo sufficientemente autistici da ricordare cosa diceva Voltaire[11], proprio lui è divenuto oggetto di culto per quella vera e propria setta – gli Howling Fantods – che sono i suoi fan più accaniti, capaci di rispondere a molte domande su DFW con lunghe citazioni, spesso in lingua originale, tratte da Infinite Jest. A ben guardare, al di là del fanatismo, David era uno scrittore che nelle sue pagine più lontane andava a mettere non un dito, ma un intero pugno, se non tutto il braccio, esattamente nell’angolo più oltraggioso di tutte le domande connesse alla vita umana. E si intendono davvero tutte[12]. Domande che, nel loro indagare apparentemente amorale sull’unica cosa che gli esseri umani fanno più o meno per tutta la vita, ossia tentare di gestire il disagio che la vita stessa ci impone come biada quotidiana – disagio fisico, intellettuale, erotico, professionale… – portano in molti casi a cercare una forma di consolazione vuoi nella religione, vuoi nella letteratura, vuoi in qualsiasi feticcio di cui decidiamo di innamorarci per non essere obbligati ad ascoltare la nostra solitudine. Noi, come diceva il filosofo individualista Max Stirner, unici (e soli) con le nostre proprietà.

E pertanto questo disagio, non è il caso di scomodare Baudelaire o Montale, che pure di questo scrivevano, porta a scelte come il monachesimo di clausura, la militanza in un partito xenofobo, la dipendenza dalle droghe, l’edonismo sfrenato o, e questo era il caso di David Foster Wallace, la malattia mentale. Parole pesanti, parole che sono un tabù irrisolto della nostra società[13], ma che sono state pronunciate da uno dei migliori amici di David, Jonathan Franzen, al termine di un lungo percorso umano e artistico che lo ha portato – per lo meno così racconta lui – ad affrontare il dolore per la morte dell’amico e la rabbia verso un gesto che considera “una vendetta sulle persone che lo amavano”[14]. “Chi lo conobbe in modo fugace o formale – scrive Franzen – prese alla lettera le sue faticose doti di iperintelligenza e saggezza morale”[15]. Ma dietro questa titanica professione di lucidità c’era un uomo che per decenni aveva tirato avanti a psicofarmaci e che, sempre nelle parole dell’autore di Le Correzioni, “per dimostrare una volta per tutte che non meritava davvero di essere amato, doveva tradire nel modo più odioso possibile le persone che lo amavano di più, uccidendosi in casa e trasformandole in testimoni diretti del suo gesto”[16]. E dunque in DFW c’era un moralista, nel senso filosofico della parola, capace di rivolgersi agli studenti con parole indelebili: “La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la ‘corsa di topi’ - la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito”[17]. Ma accanto ad esso c’era anche una persona depressa capace di escogitare, almeno sentendo Franzen che lo amava, la propria distruzione in modo metodico, per “lasciare le persone che lo amavano e consegnarsi al mondo del romanzo e dei lettori”[18]. Come se leggendo Dante scoprissimo che il tradimento – ossia la colpa che il Vate fiorentino ritiene la più grave di tutte e la cui personificazione è affidata a Giuda, Bruto, Cassio e, infernale apoteosi, a Lucifero in persona – altro non fosse che un’altra manifestazione della somma virtù di fronte al Primo Mobile che irradia di luce divina il paradiso. Sembra non funzionare granché. Ma la complessità è e resta la qualità più insondabile del cervello (ma potete leggere anche del cuore) degli esseri umani.

Perciò anche in un giorno di commemorazioni, in questo anniversario wallaciano per adepti e semplici estimatori, possiamo scegliere a ragion veduta di lasciare fuori dalla porta l’agiografia, che in letteratura è un genere spesso praticato[19] e che con DFW potrebbe venire spontaneo anche a lettori moderatamente scettici. Del resto è lo stesso David a ricordarci, scrivendo di Dostoevskij, che “trasformare qualcuno in un’icona equivale a trasformarlo in un’astrazione, e le astrazioni non sono in grado di avere una comunicazione vitale con i vivi”[20]. Il mio modesto suggerimento è quindi quello di concentrarci invece sulla lezione estetica di David, sulla sua arte, sul suo poderoso tentativo di avvicinarsi a quella Forma che secondo Barthes stava sopra la scrittura, quasi come lo Sfero di Parmenide, così ermetico, decisivo e in fondo irraggiungibile[21]. Come l’America che lui ha raccontato con vera crudeltà animata da sincero affetto e compartecipazione.

3. A Supposedly Fun Place (God Bless America, My Home Sweet Home)

“Il nostro infinito e impossibile percorso verso casa in realtà è già casa”[22]. Lo aveva detto in qualche modo Novalis e lo ha ripetuto Foster Wallace, parlando di Kafka: noi siamo qualcosa, ma anche tutto ciò che ruota intorno a questo qualcosa, “casa” è il posto in cui stiamo, per quanto transitorio – o impossibile, apocalittico, folle, insensato, iperviolento, lontanissimo da noi – ci possa sembrare. Ed è l’America, non quella delle mille luci di Manhattan o della Frisco fighetta[23], bensì quella della National Rifle Association (“Un fucile in ogni casa”, diceva più o meno il suo frontman Charlton Heston, perfetto in questo ruolo dopo Ben Hur), della televisione perennemente accesa a risuonare come un mantra[24], degli uffici e dei focus group dove ci si allena scientificamente alla disumanità, dei mall e della rabbia incontrollabile che tiene costantemente sul filo di un’esplosione violenta le code alla cassa dei supermercati. Questa America che a noi europei fa tanta paura – ma in cosa ci differenziamo? Forse solo nel numero di corsie delle autostrade[25]… - è l’America di David, èd è il panorama che fa da sfondo al suo talento che, sempre noi europei sovraistruiti e sottopagati[26], abbiamo tanto amato, pur nella sua aspra difficoltà. E dunque, per quanto sono convinto che non la amasse, DFW sapeva del suo debito verso di essa e, come dimostra in modo lampante Una cosa divertente che non farò mai più[27], ne ha scritto con un fondo inalienabile di empatia, se proprio non vogliamo dire anche affetto. Naturalmente ben nascosto in piena vista sotto la lucida e spietata crudeltà delle sue parole.

L’America di David emerge, con tutta la sua tragica vacuità, in due racconti a loro modo perfetti, contenuti in quel libro molto fuori dal comune che è La ragazza dai capelli strani[28]. Il primo è Piccoli animali senza espressione, storia della più grande campionessa del quiz televisivo Jeopardy. Un racconto capace di cogliere i gangli del meccanismo[29] che genera e sostiene la televisione più massificata – lo so, non esiste una televisione non massificata, ma di certo ne esistono alcune che sono più massificate di altre (e che Marshall McLuhan mi perdoni) – fino quasi ad arrivare a una sua, della televisione, del prodotto, del programma, capacità autogeneratrice non solo delle dinamiche spettacolari, ma anche di quelle umane e psicologiche dei personaggi che, in teoria, questa televisione dovrebbero farla. Unica eccezione, in questo scenario da fine del mondo morale, la protagonista, Julie, indecifrabile genio del telequiz che buca gli schermi americani e fa impazzire i responsabili della produzione, tra cui la sua compagna Faye. Dov’è l’America, mi chiederete. Ovunque, è nell’aria – come un gas nobile di Primo Levi o come il Sarin diffuso nella metropolitana di Tokyo nel 1995 dalla setta Aum Shinrikyo – e nel modo di bere e tagliarsi i capelli dei personaggi, è nel cielo che fa da sfondo alla scena dell’abbandono di Julie e di suo fratello da parte della madre sul ciglio di una strada. E’ da tutte le parti, e in tutte le parole di David Foster Wallace (tranne che in esse, perlomeno a livello esplicito). “Sei felice da impazzire – dice a un certo punto Julie – ma nello stesso momento in cui ti senti al massimo della completezza, di te non è rimasto molto”.

Il secondo racconto è uno dei più famosi di DFW, Lyndon, e tautologicamente parla proprio del senatore texano divenuto presidente in volo, mentre da Dallas riportavano a Washington la salma di John Fitzgerald Kennedy, assassinato. Un testo mirabolante che fin dall’ouverture mostra di cosa stiamo parlando. “Mi chiamo Lyndon Baines Johnson. Quel cazzo di pavimento che hai sotto i piedi è mio, ragazzo”. Enorme, mostruoso, violento, LBJ è una perfetta metafora di un momento storico – spendere la parola “Vietnam”, così come “contestazione”, non è nemmeno necessario – in cui l’America, scioccata da Lee Oswald, chiunque e qualunque cosa egli fosse e rappresentasse, non trovò più la forza di essere migliore. Ma a raccontarci Johnson è un suo assistente gay, David Boyd, e nel racconto c’è la struggente storia della morte del suo compagno malato di Aids, in un tempo in cui la parola neppure esisteva[30], che trova una strada per avvicinarsi all’uomo che si nascondeva negli enormi stivali o nella poltrona dello Studio Ovale, mostrandoci come anche il peggio, è in fondo semplicemente umano. E non per questo smette di essere peggio. E poi c’è Lady Bird, la signora Johnson, a cui affidare la citazione conclusiva: “David, Lyndon dice sempre che per quanti sforzi faccia non riesce a capire perché le nuove generazioni come la tua vedono tutto quello che c’è di importante nel mondo in termini di amore. Come se potesse spiegare sentimenti che durano anni e anni, quella parola”.

4. I’m Not There (A Space Odyssey)

“C’è stato un tempo in cui, per me – e per molti altri, miei coetanei o giù di lì, - Hemingway era un dio. Ed erano tempi buoni, che ricordo con soddisfazione, senza neppure l’ombra di quell’ironica indulgenza con cui si considerano mode e scalmane giovanili”. Così scriveva Italo Calvino in un bel saggio del 1954, l’anno in cui Ernest Hemingway vinse il premio Nobel per la Letteratura, due anni dopo avere pubblicato il suo romanzo peggiore, Il vecchio e il mare. David Foster Wallace il Nobel non lo vincerà più ormai, e forse non lo avrebbe vinto neppure in una vita di scrittore lunga e prolifica, troppo distante la sua sensibilità da quella dei reali accademici di Svezia. Ma la frase di Calvino potrebbe aiutare noi oggi a fare i primi passi verso quel necessario superamento anche di un vero idolo come DFW, in vista di ulteriori passaggi di crescita e di letteratura. E’ un po’ l’operazione compiuta da Franzen, che riuscendo a scrivere, anche con crudeltà, dell’amico libera se stesso dalla sua ombra ingombrante e si apre a nuove possibilità. Ovviamente senza dimenticare la lezione di David che, ancora una volta, è notevolissima e incistata nella storia della letteratura, per quanto molto spesso ciò possa apparire sorprendente. Ancora Calvino, nella sua lezione americana sull’esattezza ci fa pensare in più di un passaggio a Foster Wallace, ma è nel saggio Cibernetica e fantasmi che si coglie (visionaria la lucidità dello scrittore ligure) quello che sembra essere l’intero significato della parabola artistica di DFW. Scrive Calvino: “Il narratore cominciò a profferire parole non perché gli altri rispondessero altre prevedibili parole, ma per sperimentare fino a che punto le parole potevano combinarsi l’un l’altra, governarsi una dall’altra: per dedurre una spiegazione del mondo (il corsivo è mio) dal filo d’ogni discorso-racconto possibile, dall’arabesco che nomi e verbi, soggetti e predicati disegnavano diramandosi gli uni dagli altri”[31]. Non è, come ha inteso qualche strenuo difensore dell’ortodossia wallaciana, una notazione sull’arte di combinar parole per semplice gusto estetico[32], bensì un elogio del tentativo di cogliere il tutto, di leggere tutta la Biblioteca di Babele di Borges per dedurre quella spiegazione del mondo che, sola, nobilita il nostro viaggio nei libri, nell’esperienza, insomma in quella cosa che, con una certa imprecisione, tendiamo a chiamare realtà.

E lungo questo sentiero ci viene incontro ancora Barthes, illuminante. “Ogni volta che lo scrittore traccia un complesso di parole – scrive il francese – è messa in questione l’esistenza stessa della Letteratura; e ciò che nella pluralità delle sue scritture la modernità mette in luce è l’impasse della propria Storia”[33]. David Foster Wallace è stato il cantore dell’America degli anni Novanta e Duemila, i grandi anni dell’impasse della potenza statunitense, schiacciata tra il sogno di un momento unipolare (e del Nuovo ordine mondiale che ne doveva essere la naturale conseguenza) e la drammaticità del ritorno della paura, sotto forma di aerei che piombavano dentro i grattacieli. In questo contesto, e le parole sono ancora di Barthes, ma aderiscono a DFW come una camicia su misura, “la scrittura è un atto di solidarietà storica”[34]. Così è stato. Una solidarietà tanto esogena quanto endogena, ossia proiettata verso se stesso, verso quel tentativo di salvarsi attraverso la letteratura, e anche il successo e l’affetto del suo pubblico[35], cosa di cui forse si tende a parlare con troppo pudore. “La letteratura – ha detto David in un’intervista – si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano. Se uno parte […] dalla premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono decisamente difficile essere veri esseri umani, allora forse metà del compito della letteratura è spiegare da dove nasce questa difficoltà. Ma l’altra metà è mettere in scena il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani”[36].

A proposito di Brevi interviste con uomini schifosi, opera straordinaria e secondo Nicola Lagioia il punto in cui DFW si è spinto più lontano, Zadie Smith – che scrivendo di Foster Wallace ha mostrato come si possa unire un grande cuore e un grande cervello, un po’ come lei stessa dice sapeva fare David, e il cerchio si fa interessante – ha notato che i suoi personaggi “conoscono le parole giuste per tutto, ma non sanno il significato di niente. […] Il nostro linguaggio si rivela sempre insufficiente, anche nella sua apparente chiarezza, anzi specialmente nella sua chiarezza”[37]. A questo punto ci siamo ufficialmente persi e credo che quindi siamo anche ufficialmente arrivati dove avremmo voluto, in un punto indefinibile che non so descrivere se non dicendo che assomiglia all’immobilità delle api, per ottenere la quale gli insetti si devono muovere rapidissimi. Un movimento che non è bastato a salvare David, di cui oggi, come ha detto Don DeLillo, ricordiamo la voce così americana[38].

Altrettanto americana è però anche la voce dl grande critico Harold Bloom, il padre del Canone occidentale, a cui vorrei lasciare l’ultima parola: “Non è mia intenzione polemizzare – scrive ma ritengo che David Foster Wallace sia un pessimo scrittore. Paragonarlo a James Joyce è semplicemente ridicolo”[39]. Ecco, nessun santino in questo anniversario, solo noi qui davanti a una tomba immaginaria a pensare che dopo David la vita continua senza di lui, ma che averlo conosciuto attraverso i suoi libri è stato qualcosa che valeva la pena fare. Anche se lui probabilmente non è mai stato qui, ma ha vissuto la sua odissea nello spazio – sfinito diremmo con Pincio – molto lontano da tutti noi. O forse vicinissimo, che poi è lo stesso.

“Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce, nonostante l’oscurità dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il mondo sia per mettere in luce le possibilità di abitarlo in maniera viva e umana”[40].

L.M.



[1] Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi

[2] E l’aggettivo serve tanto per indicare la traumaticità di tale scelta - ovviamente stiamo parlando del suo suicidio, mettere la parola in una nota a piè di pagina chissà che non sia una forma, un po’ pelosa, di pudore - quanto l’effetto teatrale che questa ha conseguito, sia sui testimoni diretti della scena - perché pur con tutte le cautele del caso e l’infinito affetto che si celava, ne siamo certi, dietro l’addio di DFW, una scena magistrale è accaduta davvero - sia sul pubblico globale che non ha mai visto pencolare il cadavere dello scrittore, ma ha vissuto massmediaticamente l’onda d’urto della notizia.

[3] Uno che di DFW parla con una cura e una delicatezza quasi commovente, grazie anche a una voce estremamente interessante.

[4]Vieni a salvare mia anima, tratto dall’album Storie di whisky andati del 1988. Ecco l’incipit: “Mi sto impiccando e sono già lì lì per saltare / ma arriva un pacco e devo scender giù per firmare”.

[5] Ma anche, con una discreta possibilità alla Teoria delle Stringhe, che nella sua versione primaria postulava la necessità dell’esistenza di 24 dimensioni: in almeno una per David sono sicuro che è andata diversamente.

[6] Nelle infinite possibilità, infatti, sussiste anche una, per l’appunto, infinita serie di eventi più drammatici del suicidio di DFW... (lui che compie una strage di massa, una guerra nucleare che scoppia quel giorno, la sua, o la nostra non esistenza...) E’ complicato.

[7] A tal proposito, imperdibile il saggio Un funerale americano, 23 ottobre 2008 di Stefano Bartezzaghi, in Scrittori giocatori (Einaudi)

[8] Maradona by Kusturica di Emir Kusturica: si commuove anche chi sportivamente detestava El Pibe.

[9] Non posso non citare il copyright di questa immagine mentale: la scena finale di Underground, sempre di Kusturica, è semplicemente perfetta.

[10] In un piccolo e memorabile libro, La vita dopo Dio, opera ingiustamente trascurata di uno scrittore troppo spesso rinchiuso nella gabbia interpretativa, ottusa come tutte le semplificazioni, del padre della Generazione X. In realtà Coupland è una fonte straordinariamente copiosa di riflessioni sul mondo pop e sull’ossessione per delle grandi catastrofi, che sembrano essere rimaste le uniche, controverse, portatrici di una qualche possibile speranza di rinnovamento. Ma il tutto in una salsa postmoderna e problematica che aggiunge ai ragionamenti un sapore indescrivibile.

[11] “Una società di atei per prima cosa creerebbe una religione”, citazione a memoria, frutto di anni di applicazione sulle domande della prima, storica edizione di Trivial Pursuit in italiano.

[12] Prendete, per esempio, Brevi interviste con uomini schifosi e la B.I. n.46. Una discesa nel male a occhi talmente aperti da rischiare di confondere il volto dell’orrore che stiamo guardano con il riflesso dello specchio.

[13] Insieme alla morte, un concetto che è stato semplicemente messo al bando, dopo secoli in cui – con una morale pratica legata alla fisiologia degli esseri viventi per come li conosciamo sulla Terra – era stata costantemente esibita, forse in un grande rituale apotropaico collettivo, forse semplicemente perché unica certezza, sebbene la filosofia di David Hume ci lasci un barlume di speranza empirica che la notte, in gran segreto, sussurra a molti di noi, “con te andrà diversamente”.

[14] Jonathan Franzen – Farther Away – New Yorker, 18 aprile 2011. Versione italiana, L’isola più lontana, pubblicato su Internazionale del 26 agosto 2011.

[15] E, non ce ne voglia Franzen, era difficile non farlo dopo aver letto il discorso agli studenti del Kenyon College tenuto da DFW nel 2005 e intitolato Questa è l’acqua. Talmente forte è la “saggezza morale” dei suoi contenuti che non c’è superficialità che tenga.

[16] Jonathan Franzen, op. cit.

[17] David Foster Wallace, Questa è l’acqua, Einaudi

[18] Jonathan Franzen, op. cit.

[19] Sebbene probabilmente meno del suo gemello opposto, la stroncatura, spesso unica ragione di scrittura per tanti critici, misteriosamente inclini a credere solo nel passato o in autori pervicacemente minori. Una lettura interessante, per sconfiggere questo micragnoso vezzo, potrebbe essere Mainstream di Frederic Martel, Feltrinelli.

[20] David Foster Wallace – Il Dostoevskij di Joseph Frank in Considera l’aragosta, Einaudi

[21] Scrive Barthes in Il grado zero della letteratura: “La Forma sta sospesa davanti allo sguardo come un oggetto. Qualunque cosa si faccia, essa è uno scandalo: se è mirabile appare fuori moda; se è anarchica è asociale; se è particolare rispetto all’epoca o agli uomini, essa è sempre e comunque solitudine”.

[22] David Foster Wallace, Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka in Considera l’aragosta, cit.

[23] Non si offenda Dave Eggers, parte del suo fascino deriva anche dall’essere un po’ fighetto, seppure in modo molto molto casual. Il che non toglie nulla alla sua bravura e inventiva non solo a livello di scrittura, ma anche – e forse oggi soprattutto – di editoria.

[24] Quando Bret Easton Ellis era meno scoppiato di ora le sue scene di adolescenti che guardavano i videoclip di Mtv togliendo l’audio avevano una forza innovativa dirompente. E la tv era un oggetto non meno alieno dei suoi pazzeschi personaggi.

[25] Sempre BEE, apriva memorabilmente il suo Meno di Zero scrivendo: “La gente ha paura di cacciarsi nella mischia delle autostrade di Los Angeles”.

[26] Ho rubato due versi a Douglas Coupland, mi perdonerà

[27] Il personaggio di Capitan Video, l’ottuagenario che vive sempre con una telecamera in funzione Rec in mano, è uno degli idealtipi americani moderni. Quasi un nuovo “classico americano” per dirla con D.H. Lawrence

[28] Ripubblicandolo per Minimum Fax “quasi vent’anni dopo”, Martina Testa, che lo ha tradotto e curato per la versione italiana, nota nella prefazione al volume: “E’ un libro che, per l’originalità delle sue storie, l’audacia dello stile, la visione critica di certi aspetti della realtà, risulta a tutt’oggi non solo attuale, ma ancora innovativo”.

[29] Come direbbe Nicola Lagioia, per capire la versione italiana del fenomeno della penetrazione televisiva sono molto utili diversi brani del suo romanzo Riportando tutto a casa, Einaudi.

[30] “Per quegli ultimi molti mesi avevo passato la notte abbracciato a un uomo che moriva di sistematicità”, dice Boyd a un certo punto.

[31] Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi, in Una pietra sopra, Einaudi

[32] L’arte per l’arte è un concetto che ai fanatici, di qualunque tipologia, fa sempre un po’ paura. Ma non è di questo che stiamo parlando qui.

[33] Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi

[34] Roland Barthes, Op. cit.

[35] Anche di questo parla David Lipsky nel suo Come diventare se stessi, Minimum Fax fresco di stampa. David pareva amare il fatto di essere una celebrità, di avere le sue groupie. E in qualche modo anche il suo suicidio è stato da rockstar, quel darsi al pubblico che tanto ha amareggiato Franzen (“Aveva preferito l’adulazione degli estranei all’amore delle persone più vicine”, scrive in tono piuttosto ricattatori, da genitore ferito dalla crescita dei propri figli) in certe condizioni di luce mi fa pensare al tuffo di un Jim Morrison verso la platea adorante. La band resta da sola sul palco a gestire il quotidiano del concerto, mentre lui, fugge, ma lo fa con un salto nel vuoto che comporta, comunque, un passo senza rete nell’incognito…

[37] Zadie Smith, Brevi interviste con uomini schifosi: i doni difficili di David Foster Wallace, in Cambiare idea, Minimum Fax. Un saggio imprescindibile su DFW.

[38] Don DeLillo, prefazione a Questa è l’acqua, Einaudi. Una frase che in qualche modo riecheggia il memorabile incipit di Underworld.

[39] Alessandra Farkas, L’anti-canone di Bloom, in Corriere della Sera, 20 luglio 2011

[40] A conversation with David Foster Wallace, by Larry Mc Caffery, cit.