27 dicembre 2011

Jennifer Egan, un Pulitzer memorabile

Il Pulitzer, ben più del Nobel, è un premio che molto spesso viene assegnato a opere di grande qualità. Basti pensare, negli ultimi anni, agli straordinari Pastorale americana di Philip Roth (1998) , Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon (2001) e Middlesex di Jeffrey Eugenides (2003). Resta un mistero come Richard Russo nel 2002 abbia potuto battere il Franzen de Le correzioni, ma forse era necessario per evitare che lo schivo Jonathan venisse immediatamente beatificato. Non fa eccezione, nel panorama delle scelte azzeccate, il premio 2011, assegnato allo splendido romanzo di Jennifer Egan Il tempo è un bastardo, pubblicato in Italia da Minimum Fax sotto l’appassionata supervisione di Martina Testa.

Il libro è, apparentemente, composto di racconti distinti, uniti dalle storie de personaggi che vi ricorrono. Il tempo – vero cuore pulsante di tutto il romanzo e delle riflessioni della Egan – si muove attraverso le pagine con andamento quantistico, restituendo quel meraviglioso senso di disconnessione (e al tempo stesso coerenza assoluta, quasi mistica) che il pubblico globale ha imparato a conoscere dai tempi di Pulp Fiction (e una piccola citazione per Babel di Alejandro Gonzalez Inarritu è doverosa). Le pagine di Jennifer Egan, però, hanno un potere evocativo e sentimentale che le rende, se possibile, ancora più vivide rispetto al cinema e hanno la forza letteraria di restituire quel senso del tempo che si potrebbe definire tolstojano (e che il grande russo ha mirabilmente reso attraverso i suoi romanzi fluviali). Il punto, però, è che Egan restituisce questa sensazione sfruttando la brevità, e i suoi flashforward (si veda il capitolo forse in assoluto più bello, ma è difficile dirlo con sicurezza, che è il numero 4, Safari) sono come un treno in piena corsa che travolge il lettore e lo lascia completamente in balia della magia del romanzo. E con la sensazione che il tempo sia in fondo il genio ultimo della nostra vita, la vera grandezza incommensurabile con cui la misura dell’umano deve confrontarsi e, come ci ricorda il titolo, essere sempre sconfitto, almeno apparentemente. Ma quando un romanzo riesce ad analizzarlo in profondità (e leggerezza), come fa Egan, ecco che, almeno per un poco, si ha la sensazione che in qualche modo la sconfitta possa essere ribaltata in una, seppur parziale, vittoria.

Il romanzo ruota intorno a due personaggi principali: l’ex musicista e discografico di successo Bennie Salazar e la sua assistente Sasha. Accanto a loro si muove una pletora di altri personaggi che sono la vera ricchezza del libro, anche per le situazioni imprevedibili che li contraddistinguono. “Io stessa – ha detto Jennifer Egan a Martina Testa – non ho idea di cosa succederà ai miei personaggi mentre ne scrivo. Cerco le mosse istintive, spiazzanti: quelle che non ti aspetti. E’ questo che mi diverte, quando scrivo. Tutto il mio processo di scrittura mira a rendere possibili queste sorprese”. E Cathleen Schine è molto acuta quando nota che si tratta di “una commovente saga umanistica, un’enorme epopea ottocentesca magistralmente travestita da ironico pastiche postmoderno”. E quando una scrittrice riesce a commuoverci anche con una serie di grafici (capitolo 12, ambientato nel futuro, guardatelo), capiamo che siamo di fronte a qualcosa che ha una forza fuori dal comune, ed Egan dimostra di avere capito e digerito, con condimento di ironia, la lezione della grande letteratura contemporanea. Così questo 2011 si chiude con un romanzo che entra di diritto tra le cose migliori apparse in Italia in tutto l’anno.

03 dicembre 2011

Il Re Pallido: se questo non è un capolavoro

Non credete a quello che vi possono dire su David Foster Wallace, tanto i suoi fanatici ammiratori quanto i suoi tenaci detrattori (tra i più recenti c'è il pur un tempo leggendario Bret Easton Ellis). Se volete credere a qualcosa su di lui c'è un solo modo: leggerlo. Con attenzione, a volte con fatica, pressoché sempre con una resa emotiva ed estetica fuori dal comune. La sensazione prendendo in mano - e affondandoci - Il Re pallido, l'attesissimo romanzo postumo che Einaudi ha pubblicato nella collana Stile Libero (perché non un Supercorallo, ci viene da chiedere) è quella di essere davanti alla manifestazione della stupefacente maturità di uno scrittore. Una manifestazione talmente clamorosa che DFW, perennemente convinto di non essere abbastanza ben attrezzato (come ha sottolineato Sandro Veronesi in uno splendido pezzo su La Repubblica), ha dovuto camuffare sotto un'apparenza di grigiore e noia. Scegliendo come ambientazione l'ufficio dell'Agenzia delle entrate di Peoria, Illinois e come tema principale del libro la noia. Ma il camuffamento resiste solo all'approccio superficiale al romanzo, come se fosse una sovracoperta ingannatrice, una volta levata la quale ci si trova immersi fino al collo (e talvolta anche di più, con il rischio concreto di affogare) dentro il talento scomodo di quello che sempre più appare lo scrittore più importante - e per questo anche solitario, pur nella folla di chi da lui ha tratto ispirazione - degli ultimi anni.

Parlare ancora del suo suicidio non è neppure interessante, ma non si può fare a meno di percepire, in modo epidermico, quasi fosse un'orticaria, il senso di perdita che la scelta di Foster Wallace ha lasciato nei lettori, una perdita che più che umana è letteraria, figlia della poderosa padronanza della materia che anche un romanzo incompiuto e frammentario come Il Re pallido riesce a trasmettere con la stessa evidenza - solo apparentemente offuscata - delle grandi tele di Mark Rothko. E i temi di cui si parla sono universali, sebbene la fotografia scattata da DFW, a una risoluzione inimmaginabile, da esprimere con le potenze di 10, sia sostanzialmente quella dell'America contemporanea, né più né meno. Come aveva fatto, mirabilmente, già nella sua prima grande raccolta di racconti (La ragazza dai capelli strani), David Foster Wallace anche qui applica il suo microscopio elettronico morale - nel senso più ampio e neutro del termine - alla società americana, arrivando a un iperrealismo che confina pericolosamente con la visionarietà. Qui sta, in buona sostanza, la grandezza del libro, che - e questo è il grande merito dell'editor Michael Pietsch che lo ha assemblato partendo dalle circa tremila pagine che DFW aveva lasciato ("nascoste in piena luce" verrebbe da dire parafrasando lo stesso scrittore) sul proprio tavolo di lavoro, in garage (e non è questo il luogo per ricordare una volta di più quanta della creatività americana è nata in un garage...) - pur nella sua struttura sconnessa si contraddistingue anche per un grande sostanziale compattezza nella forma romanzesca.

 Il Re pallido, cronaca senza una vera trama della vita di un gruppo di impiegati del fisco tra cui anche un David Wallace che asserisce di essere l'autore del libro, è un oggetto distante, abbacinante, affettuoso. Un nuovo, per usare la perfetta espressione di Zadie Smith, dono difficile di DFW. Ma anche un'esperienza letteraria che ci restituisce uno stupore (e una paura, una rabbia, un divertimento...) che tanti romanzi non sembrano più in grado di suscitare, così intenti a focalizzarsi, di volta in volta, su uno specifico obiettivo (intrattenere, scandalizzare, vendere...). Qui siamo invece nel cuore del Maelstrom di un caos solo apparentemente calmo, in realtà del tutto incandescente (ricordate Rothko, poco sopra?) e intimamente connesso alla vita di ogni lettore. Gli stravaganti impiegati del fisco siamo noi, lo siamo terribilmente, lo siamo irrimediabilmente. E il primo di tutti è proprio quel David Wallace dalla faccia butterata che mai si pone fuori da questo girone grottesco-infernale, che mai giudica, che mai dimentica che solo la com-passione è il segreto della nostra sfiancata umanità.