24 giugno 2011

E se Kafka fosse sopravvissuto? Il dilemma di Philip Roth

E se Franz Kafka fosse sopravvissuto alla malattia e all’Olocausto e avesse raggiunto l’America? Avremmo ancora il più grande scrittore del Novecento (o almeno uno dei più grandi, ma a contendergli lo scettro, a ben guardare, ci sono solo due irlandesi, Joyce e Beckett) oppure solo un professore attempato che ha tenuto nel cassetto, nascosti a tutti, romanzi intitolati Il Processo o Il Castello? Di questo ha scritto Philip Roth, uno dei maggiori autori viventi, in un breve testo del 1973 che esce per la prima volta in Italia per Einaudi: Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno – Ovvero, guardando Kafka. Un piccolo libro, articolato in due parti, che è una scintilla d’intelligenza e apre una finestra prima sull’ultima felicità di Kafka, quella più autentica e senza speranza, quindi sulla possibilità di una “seconda chance” per lo scrittore praghese, con un prezzo da pagare però.

Roth parte dalla citazione del digiunatore kafkiano, che muore di inedia perché non riusciva a trovare un cibo che gli piacesse, per rievocare la figura di Kafka, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, quando, ormai certo di dover morire, vive una breve stagione d’amore accanto alla giovane Dora Dymant. Philip Roth ricorda che Kafka aveva scritto al padre di essere escluso dalla sfera del matrimonio in quanto questa era propriamente sua, del genitore. “Ma adesso – aggiunge lo scrittore di Newark – a quanto pare la prospettiva di una Dora per sempre, di una moglie, di una casa e dei figli per l’eternità, non è più la prospettiva terrificante, sbigottente, che sarebbe stata un tempo, perché adesso ‘per l’eternità’ senza dubbio non significa più che qualche mese”. L’intelligenza di Roth è affilata come un coltello, e poco oltre, quando si parla della relazione casta e quasi genitoriale tra Franz e Dora, ecco la geniale parafrasi del celeberrimo attacco della Metamorfosi: “Quando Franz Kafka una mattina nel suo letto si svegliò da sonni inquieti, si ritrovò trasformato in un padre, uno scrittore e un ebreo”.

La seconda parte del libro è più narrativa, è una storia ambientata a Newark nel 1942 e il protagonista è il 59enne insegnante della scuola di ebraico dove studia il narratore, un ragazzino ebreo di 9 anni. Manco a dirlo, si tratta del dottor Franz Kafka, con il suo alito cattivo “che alle cinque del pomeriggio è aromatizzato dai succhi intestinali”, tanto da valergli il nomignolo di “dottor Kishka”, ossia in yiddish “interiora”. Il sopravvissuto è timido, ha una storia, poi troncata bruscamente, con una zia zitella del ragazzo, quindi sparisce e muore a 70 anni, senza eredi e, soprattutto, senza libri. “Le carte del deceduto – scrive Roth – non vengono reclamate da nessuno, e scompaiono”. E quindi la gloria letteraria, seppur postuma e forse umanamente ancora più amara, che ha poi raggiunto il nome del Kafka storico, qui si dissolve nel nulla. “No – Conclude Roth – semplicemente non è dato che Kafka possa mai diventare ‘il’ Kafka, perdinci, sarebbe ancora più strano di un uomo che si trasforma in un insetto. Nessuno ci crederebbe, men che meno Kafka”. Ma forse la letteratura sì.

10 giugno 2011

Ratner's Star, la stella più lontana di DeLillo

Don DeLillo è uno dei grandi numi tutelari della letteratura contemporanea, uno scrittore che ha saputo attraversare le mode e le tendenze - su tutte il postmoderno - cogliendone il meglio, ma senza mai esserne vincolato rigidamente, anzi, spesso creando con le sue opere dei nuovi paradigmi. Libri come Giocatori, Rumore bianco o Libra, prima del suo capolavoro Underworld, hanno segnato tappe importanti per l'evoluzione del romanzo contemporaneo, anche dal punto di vista della riflessione teorica. La bibliografia di DeLillo è ricca anche nelle edizioni italiane, ma un titolo in particolare, Ratner'Star del 1976, spiccava - insieme al precedente End Zone, tuttora non tradotto - per la sua assenza. Oggi questa lacuna viene colmata da Einaudi, che concede alla debordante opera di DeLillo la prestigiosa edizione rilegata dei Supercoralli, 35 anni dopo la pubblicazione americana.

La stella di Ratner è un romanzo potente e complesso, illuminato da una sottile vena di follia, come si addice a un libro sulla matematica pura. La storia, e già questi indizi sono lievemente rivelatori, è quella di Billy Twillig, genio per cui è stato appositamente creato un premio Nobel per la matematica, ma che ha solo 14 anni e viene invitato in un complesso di ricerca segreto per cercare di interpretare, insieme ai migliori cervelli del mondo, un misterioso messaggio inviato da un punto vicino, appunto, alla Stella di Ratner del titolo. Insomma, come nel film Contact, anche qui si tratta di parlare con gli extraterresti. Ma il compito è talmente complesso che anche i più importanti scienziati rischiano di impazzire, e qualcuno nel libro lo fa veramente. Intorno a questo nucleo tematico fantascientifico ruota un libro anomalo, magnetico, spiazzante... qualcosa che sembra avere fornito una sorta di modello per chi è venuto dopo DeLillo, come per esempio David Foster Wallace (un altro scrittore, tra le altre cose, affascinato e turbato dalla matematica più spinta). "La matematica - ha detto DeLillo in un'intervista alla Paris Review del 1992 - è conoscenza sotterranea. [...] Sono stato spinto dall'idea di un romanzo su un campo enormemente importante del pensiero umano che rimane largamente sconosciuto".

Intervistato oggi DeLillo non rinnega il romanzo, ma lo colloca su un'orbita molto lontana. "E' un romanzo molto insolito - ha detto a Kilgore - è la stella più distante della mia produzione, ed è anche l'unica volta in cui affronto il tema della matematica a questo livello. E' veramente la stella remota nella mia opera. C'è un piccolo sistema solare dei miei libri, e poi c'è la Stella di Ratner. Non so cosa mi abbia spinto a coinvolgermi così in fondo in un romanzo sulla matematica. Forse l'unica spiegazione è che a quel tempo ero pazzo". Una pazzia, se vogliamo chiamarla così, che è anche la temperie di un decennio, gli anni Settanta, che hanno prodotto, solo per citare un titolo, un oggetto alieno come L'arcobaleno della Gravità di Thomas Pynchon. E La Stella di Ratner si inserisce perfettamente in questo filone, pur tenendosi su un tenore meno apocalittico rispetto al grande recluso suo collega e quasi coetaneo (DeLillo è del 1936, Pynchon ha un anno in meno), ma giunge comunque a quelle che oggi chiameremmo conclusioni - ma 35 anni fa non avrebbero usato questa parola - altrettanto disturbanti. La sensazione è che questo romanzo sia stato una tappa decisiva per poi permettere a DeLillo di scrivere i successivi capolavori e che, anche oggi, resti una potente lettura contemporanea.