10 novembre 2010

Belpoliti e Pasolini: mangiamoci il maestro

"Pasolini oggi è da accettare come grande poeta della modernità, ma è da respingere perché nella realtà complessa del nostro presente lui non c'è, non ci serve". Marco Belpoliti, saggista autorevole e docente universitario, spiega così a Kilgore il paradosso che è alla base del suo ultimo libro, un pamphlet sul grande poeta friulano che sottolinea la rilevanza dell'omosessualità nella sua opera e invita, provocatoriamente ma non troppo, a mangiarsi il maestro, proprio come suggeriva il corvo a Totò nel film pasoliniano Uccellacci e uccellini. Pasolini in salsa piccante (edizioni Guanda) è un saggio che riunisce scritti diversi che affrontano il tema della sessualità del poeta, la sua corporeità e i suoi lati più oscuri, quelli che partono dalle "buie viscere" delle Ceneri di Gramsci.

Il risultato è un piccolo libro brillante e provocatorio, che getta un sasso nei non detti della società - culturale, ma non solo - italiana e porta i lettori di oggi a riflettere da un diverso punto di vista sulla vicenda umana e artistica (etica ed estetica si dovrebbe forse dire) di un intellettuale che ha segnato un'epoca e non finisce di fare scandalo, ma che oggi - nella metafora di Belpoliti - andrebbe digerito per avere poi la possibilità di guardare avanti.

Belpoliti ci parla di un Pasolini che richiede adesioni totalizzanti, tanto da creare "il paradosso di avere sempre ragione, anche quando ha torto o, girando la prospettiva, con cui sono in disaccordo anche quando ha ragione". Il tema della duplicità del poeta è onnipresente nei saggi di Belpoliti, perfino in quello dedicato ai ritratti di Pasolini fatti da Ugo Mulas: lo scrittore viene descritto come un "vecchio-bambino", dove alle rughe evidenti e profonde si unisce la costante espressione di stupore e di scoperta. Il profilo che emerge è tanto quello reale dell'immagine di copertina quanto quello affettuoso che Belpoliti ricostruisce pagina dopo pagina. Ma l'affetto non copre il cuore polemico del saggio, che solleva la coperta che da 35 anni - tanti ne sono passati dalla morte di Pasolini - sembra voler tacere sulla componente più disturbante della personalità del poeta: il suo erotismo. Belpoliti parla esplicitamente - rifacendosi a Walter Siti, scrittore e studioso di Pasolini - di "un culto della bellezza e del sacro che nel friulano assumono l'aspetto del dono e dello stupro". La parola piomba come un macigno sul tavolo degli intellettuali, ma è proprio di questo che si sta parlando, come si sta parlando di un altro enorme tabù sociale, "la pedofilia".

"Pasolini - spiega Belpoliti - è ancora scandaloso in una società omofoba come la nostra perché a lui non interessa il rapporto paritario tra due adulti omosessuali, il suo modello è quello del rapporto tra un uomo adulto, lui stesso, e un ragazzo etero. Questa è una delle radici della sua diversità intellettuale e poetica. Noi viviamo in un'epoca post-gay, e ora Pasolini è incollocabile, appartiene al passato". Spostandosi sul tema letterario l'analisi di Belpoliti si fa, se possibile, ancora più esplicita: "Pasolini va letto per la dolcezza della sua poesia, che però è una poesia morta, più lontana da noi di quella di Dante. E' la povera Italia che non c'è più ed è scomparsa". Quell'Italia che lo scrittore corsaro e luterano amava anche per aspetti come la forte repressione sessuale, che rendeva - nelle sue parole - i giovani più belli e - aggiunge Belpoliti - più disponibili all'avventura omoerotica.

Il discorso di Marco Belpoliti però è rivolto soprattutto al presente e, citando di nuovo Siti che ha presentato il libro a Roma nei giorni scorsi, ricorda che, dopo la sua morte, Pasolini è stato usato per zittire molti intellettuali con lo slogan "guardate come era scandaloso lui, voi non ne siete neppure capaci". "Mangiarsi Pasolini - spiega Belpoliti - vuol dire prendersi la responsabilità di parlare dell'oggi, anche sbagliando". E il professore non si tira certo indietro: "Oggi - ci spiega con passione - gli intellettuali non sono liberi di esprimersi se non all'interno di un coro. Chi non rientra in questi schemi (e Belpoliti fa dei nomi: Cortellessa, Trevi, Scurati, ndr) fa fatica a trovare spazio". L'analisi poi si sposta sulla stringente attualità: "Oggi l'immaginario sessuale di Colpo Grosso è andato al potere, e il rito osceno del Bunga Bunga è qualcosa che va al di là anche della distinzione tra il maschile e il femminile".

Un'ultima notazione, tutt'altro che marginale, sull'omicidio di Pasolini. Belpoliti dice di non avere mai detto che il poeta è stato ucciso dal solo Pelosi e di essere favorevole alla riapertura delle indagini. "Ma io non penso che sia stato ucciso per motivi politici. Il capitolo trafugato di Petrolio - che secondo alcuni conteneva delle verità sulla morte di Mattei e avrebbe provocato l'uccisione di Pasolini - non lo ha visto nessuno, è una fantasia, esprime la paranoia degli intellettuali italiani".

25 settembre 2010

Joshua Ferris: "Il romanzo è complicazione"

E' uno degli autori che il Time Magazine ha indicato tra i tre più importanti scrittori della nuova generazione americana, ma, quando glielo si fa notare, Joshua Ferris risponde serenamente: "Non mi interessa per niente". Nato nell'Illinois quasi 36 anni fa, Ferris ha già ottenuto un successo mondiale con il romanzo d'esordio E poi siamo arrivati alla fine, e ora è al Festivaletteratura di Mantova per presentare il nuovo lavoro, Non conosco il tuo nome, entrambi editi da Neri Pozza. Quest'ultima è la storia di un uomo, Tim, afflitto da una misteriosa malattia che lo porta a lasciare tutta la sua vita felice e di successo per mettersi a camminare, senza mai fermarsi e senza una meta precisa, fino a quando lo sfinimento non ha il sopravvento.

VIDEO: Joshua Ferris consiglia il suo libro

Un romanzo affascinante e complesso, ricco di stile e di pagine (350 nell'edizione italiana), che corrisponde all'idea di fondo dello scrittore. "Il romanzo - ha spiegato Ferris a Kilgore - è il luogo dove si incontra la complessità. Non puoi raggiungerla con un post su Twitter, ma puoi farlo con un romanzo". Qualcuno, semplicisticamente, ha letto la fuga del protagonista come uno scappare dalla felicità, ma Ferris rifiuta questa interpretazione ("E' molto facile fare un 'tweet' su questa idea"): "Non c'è nulla che Tim voglia di più che rimanere a casa sua. Ma non può farlo, non ci riesce". E come in un gioco di specchi nel quale le sensazioni si moltiplicano all'infinito, il romanzo disorienta e colpisce il lettore con quella "bellezza obliqua", che Ferris indica come la caratteristica di quelli che lui definisce "romanzi perfetti".


Un esempio di libro perfetto, secondo Joshua Ferris, è Lolita di Vladimir Nabokov: "In un romanzo non ci deve essere un messaggio - ha spiegato - solo diverse tipologie di piaceri. Il romanzo perfetto contiene tutto questo, 'Lolita' suscita mistero e poi porta verso le possibili verità. E ha la magia di un grande finale, con una sensazione di grande chiarezza, pur senza una vera e propria conclusione". Di formazione filosofica, Ferris ha il merito di mettere il lettore di fronte a dilemmi morali, nel caso di Non conosco il tuo nome, per esempio quello della tenuta di un matrimonio in condizioni difficili, oppure quello del confronto con una malattia - perché quella di Tim lo è indubbiamente – che però non viene identificata in nessun modo, e resta un inquietante rumore di fondo sotto la narrazione e sotto la vita dei personaggi di Joshua Ferris.


"Il matrimonio - ci ha spiegato lo scrittore - è una relazione difficile, l'istituto è quasi sempre in crisi, è una cosa veramente complessa. Mi ha interessato molto come tema per il romanzo, perché contiene tutte le complicazioni più una: lo stare insieme di due persone che, comunque, restano per sempre distinte". Per quanto riguarda la camminata irrefrenabile di Tim, che ovviamente non può non coinvolgere anche la moglie Jane e la figlia adolescente Becka, Ferris ha spiegato che "è ovviamente una metafora della malattia, ma non essendo poi davvero tale costringe il romanzo a confrontarsi con la necessità di raccontare realisticamente le difficoltà della famiglia e al tempo stesso trattare anche di una sindrome che è solamente fantastica". Lungo questo confine si prova la forza del libro.

VIDEO: Lo stato del romanzo secondo Ferris

Il critico Lev Grossman, sempre sul Time, ha elogiato Ferris ma al tempo stesso ha auspicato che il prossimo romanzo - al quale lo scrittore ci ha confermato che sta già lavorando – metta insieme il registro più comico del primo libro e quello più tragico del secondo. "Con un po' di fortuna - ha commentato sorridendo Ferris - ce la farò".

19 luglio 2010

Paul Murray, nuovo capitolo del romanzo totale

“E' impossibile fare entrare un mondo intero in un libro”. Si presenta così Paul Murray, 35enne scrittore dublinese autore del sorprendente romanzo Skippy muore, che esce in Italia per i tipi di Isbn edizioni nella gustosissima collana Special Books. Però, dopo aver letto il libro, un’opera che parte da una storia di studenti in un elitario college cattolico e poi esplode in mille altre suggestioni, viene il sospetto che Murray in realtà si sia avvicinato a creare qualcosa che assomiglia davvero a un mondo intero. Romanzo monumentale (815 pagine in carattere abbastanza piccolo), Skippy muore è un oggetto difficile da circoscrivere, nuovo tassello di quella storia sempre – sorprendentemente – in evoluzione che è il romanzo totale. Da Moby Dick all’Ulisse, la storia della letteratura è scandita da momenti che portano scompiglio sulla scena e cambiano le carte in tavola. Senza voler paragonare Murray a Melville e Joyce, confronto impossibile quasi per chiunque, resta però il fatto che è in quel solco che il suo romanzo si va a collocare, con il giusto mix di narrazione più o meno classica e vere proprie epifanie letterarie.

“Quando ho cominciato a scrivere il libro – ha spiegato Paul Murray a Kilgore – pensavo a un racconto, ma poi mi sono reso conto che nell’ambientazione della scuola si poteva mettere moltissimo: in fondo è un periodo cruciale della vita nel quale si sviluppano le personalità e si è obbligati a confrontarsi con persone diversissime. E attraverso questo espediente potevo affrontare moltissimi aspetti della vita irlandese”. Le storie di Daniel “Skippy” Juster, il cui destino è manifesto fin dal titolo e si compie addirittura nel prologo, e dei suoi compagni di corso, degli insegnanti, dei genitori e dei religiosi che gestiscono la scuola, sembrano quasi un pretesto per dare vita a un’opera corale e piena di rimandi ad altro, nella quale Murray crea un gran numero di registri linguistici. Per lo scrittore “lo stile è immensamente importante. Io sono irlandese – ci ha spiegato – e la nostra letteratura è ossessionata dal linguaggio, sulla scia di autori come Joyce o Beckett. In questo romanzo la sfida era proprio quella di trovare le voci diverse per così tanti personaggi”.

Oltre alle suggestioni linguistiche, che sono comunque la spina dorsale della letteratura e che potrebbero da sole “fare” il romanzo, Skippy muore è anche un interessante caleidoscopio di spunti: dalle teorie scientifiche più avanzate sull’origine dell’universo a considerazioni sul senso della storia, dalla sintassi degli sms al sempre complesso universo dei sentimenti familiari. Che si connota pure come un’opera fortemente ancorata al presente. “Viviamo un tempo molto interessante – ha spiegato Murray – con i nuovi media e Internet che stanno cambiando la nostra civiltà. Il romanzo deve adeguarsi, deve contenere tutte queste cose”. E quando gli chiediamo come possa funzionare un librone di 800 pagine al tempo della messaggeria istantanea, Murray risponde: “In Internet c’è di certo una fruizione veloce dei contenuti, ma c’è anche un universo di informazioni e rimandi che ti tengono incollato al video per giorni interi. E’ qualcosa che ricorda il tentativo di Joyce di racchiudere tutta una singola giornata in un libro, con un’infinità di connessioni e relazioni”.

Oltre che ai superbi modelli irlandesi, Paul Murray guarda anche a due giganti – a loro modo enigmatici – della letteratura più recente: Roberto Bolaño e Thomas Pynchon, ai quali è accomunato da apparentemente trascurabili coincidenze. “Il cileno – ha spiegato lo scrittore ha un linguaggio incredibilmente potente e Pynchon è un eroe. Entrambi sono scrittori di enorme coraggio”. Chissà che Paul Murray non sia destinato nel prossimo futuro a entrare nel club.

30 giugno 2010

Bolaño, Amuleto e il "segreto" di 2666

Roberto Bolaño continua a vivere, almeno per quanto riguarda la pubblicazione delle sue opere. In attesa di due inediti annunciati anche in Italia per i prossimi mesi ecco che Adelphi ripubblica Amuleto, romanzo falso-giallo del 1999, nella nuova versione della valente ispanista Ilide Carmignani. Una storia oscura, segreta probabilmente è il termine più calzante, raccontata in prima persona da Auxilio Lacouture, la “madre di tutti i giovani poeti messicani”, che visse il proprio momento di celebrità allorché resto chiusa – sostanzialmente immobile – in un gabinetto dell’università di Città del Messico mentre i militari facevano irruzione nell’ateneo durante i moti del Sessantotto. Quell’esperienza, che Bolaño racconta con l’usuale visionarietà lucida e folle al tempo stesso, lasciò un segno indelebile sulla giovane donna, che da quel momento porta con sé la propria solitaria resistenza proprio come un amuleto. L’orrore di fondo, quello che lo scrittore cileno è un maestro nel lasciare in secondo piano, quasi fosse un rumore bianco percepibile solo con una particolare strumentazione, è proprio quello della violenza politica che si abbattè su un’intera generazione di giovani latinoamericani. Ma, come in tutte le migliori pagine di Bolaño, il fascino del libro sta nell’incredibile maestria con cui lo scrittore sembra parlare di altro, lasciando solo delle tracce, che il lettore può scegliere di seguire come di non considerare, certo che ogni strada intrapresa sarà al tempo stesso perfetta e clamorosamente sbagliata. Borges, insomma, non è passato invano.

Dei possibili sentieri che si biforcano che si pongono davanti al lettore, uno porta dritto a un tesoro per gli appassionati di Bolaño: nelle pagine di Amuleto, infatti, convergono i personaggi più famosi inventati dal cileno, su tutti il suo alter ego Arturo Belano, indimenticabile protagonista insieme a Ulises Lima del capolavoro I detective selvaggi. Romanzo questo in cui compare anche la storia di Auxilio, e qui già si spande un leggero senso di vertigine. Ma siamo solo all’inizio: a pagina 72 dell’edizione Adelphi, infatti, si trova inattesa la probabile risposta a una delle domande che più hanno assillato i lettori che hanno amato 2666, il monumentale romanzo postumo di Bolaño – anche qui si deve spendere la parola capolavoro, non è ridondante: è inevitabile – sul cui titolo tutti noi ci siamo interrogati. Lungo le oltre mille pagine del libro la misteriosa cifra non appare mai. La troviamo però in Amuleto: “La Guerrero – scrive Bolaño a proposito di una strada malfamata di Città del Messico – a quell’ora sembra più che altro un cimitero, ma non un cimitero del 1974, né un cimitero del 1968, né un cimitero del 1975, ma un cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito per dimenticare tutto”. Puro Bolaño, una frase che, da sola, vale il prezzo del biglietto.

La sensazione è che, in fondo, il cileno abbia sempre scritto un'unica grande storia, declinata per puri motivi editoriali in vari libri e raccolte di racconti, che però vivono come le necessarie appendici di un unico rizoma letterario, che si dipana e si biforca – un po’ come il tratto di penna che chiude Il barone rampante di Italo Calvino – fino a tracciare l’intera vicenda di uno scrittore manifesto o segreto, ma senza dubbio scomparso troppo presto. Un’ultima notazione: in questo gioco di coincidenze e incroci che porta il lettore a lambire i confini infernali del nostro mondo spicca un’altra cifra: Amuleto è il volume 222 della collana Fabula di Adelphi. Moltiplicandolo per tre, ossia il numero di opere di Bolaño finora pubblicate dalla casa editrice di Calasso, si ottiene un risultato assai inquietante. E’ solo un gioco, ma chissà che nel 2666 qualcuno non possa scoprirci un qualche altro tipo di interpolazione.

18 giugno 2010

Addio a José Saramago (1922-2010)

Viveva sull'isola di Lanzarote, nelle Canarie, dove si era esiliato in seguito al clamore e alla rabbia suscitate dal suo romanzo Il Vangelo secondo Gesù Cristo. Ma l'intera carriera di José Saramago, probabilmente il più grande scrittore europeo e uno dei più importanti al mondo, è stata costellata di polemiche per le sue prese di posizione senza compromessi, tanto in tema di politica quanto di religione.

Nato ad Azinhaga, nell'entroterra portoghese, nel 1922, Saramago ha debuttato nel 1947 con un romanzo poi ripudiato dallo stesso scrittore. Il successo è arrivato molto più tardi, nel 1980, con Una terra chiamata Alentejo, ma da quel momento in avanti ogni suo libro ha segnato tappe importanti per la letteratura portoghese ed europea, con capolavori assoluti come L'anno della morte di Ricardo Reis (1984), Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991), Cecità (1995). Fino al suo ultimo romanzo, Caino, pubblicato in Italia solo poche settimane fa, tra l'altro a breve distanza dai Quaderni di Lanzarote, estratto dei suoi diari uscito nel nostro Paese in primavera.

Irriverente verso l'autorità e profondamente intriso di umanesimo, Saramago ha inventato una prosa unica, fatta di una sorta di continuo dialogo interiore nel quale non trovano spazio i vincoli più rigidi della punteggiatura. Il discorso fluisce continuo in una massa armonica di parole che assumono, pagina dopo pagina, la struttura concreta di un edificio superbo e forse difficilmente accessibile. Come se il Castello di Kafka - o la Torre di Babele, per citare esempi biblici cari a Saramago - si fossero fatti scrittura e suono, in un'architettura letteraria che arriva fino ad assumere una corporeità.

Perché la cifra dello scrittore è anche quella di una costante riconduzione all'umano, in una polemica con la religione ufficiale che affonda in radici antiche. Quasi che per premio Nobel del 1998, con la sua pagina così intrisa di grandezza epica, la Bibbia fosse in qualche modo un libro con cui rivaleggiare, letterariamente s'intende. La vocazione umanista della sua lettura della storia religiosa è ben più profonda di quella di un semplice ateo, e si incentra intorno alla figura di Cristo: "Prima di Gesù - scrive nei Quaderni - gli uomini erano già capaci di perdonare, ma gli dèi no". E in Caino la lettura di Saramago del quasi sacrificio di Isacco, raccontato dal punto di vista del bambino, è al tempo stesso grande letteratura e denuncia di una violenza incomprensibile.

Saramago, inscritto al Partito comunista portoghese da fine anni Sessanta, ha anche preso dure posizioni politiche. Nel suo Cecità, sulle orme della Peste di Camus, ha descritto la follia totalitaria sotto forma di malattia della vista. Ma in Italia sono note soprattutto le sue polemiche con Silvio Berlusconi, che tra l'altro lo scrittore ha definito "un delinquente". Per l'accusa di diffamazione nei confronti del Cavaliere una diversa edizione del suo Quaderno è stata rifiutata da Einaudi, parte del gruppo Mondadori, ed è apparso per i tipi di Bollati Boringhieri.

03 giugno 2010

Maradona, l'ultima (folle) star del calcio umanista

Ci sono Messi, Cristiano Ronaldo, Milito, Drogba ed Eto’o, ma forse l’ultima vera star (umana) dei Mondiali di calcio che stanno per cominciare in Sudafrica è ancora lui, l’indomito e indomabile Diego Maradona. Alla guida di un’Argentina che sulla carta ha tutto per vincere la Coppa del mondo, salvo forse proprio l’imprevedibilità del suo allenatore. Per l’occasione Fandango ripropone nei tascabili la straordinaria autobiografia del Pibe de Oro Io sono El Diego, un libro picaresco e irrefrenabile che, con apparente umiltà, non fa altro che aggiungere nuova linfa a mito di un campione assoluto. Un po’ la stessa operazione fatta dal film Maradona di Emir Kusturica (lui che canta La mano de Dios, INDIMENTICABILE), solo che questa volta Diego parla in prima persona. Ai tempi dei giocatori-cyborg e del calcio iper professionalizzato, rileggere la storia del bambino povero diventato una star mondiale nonostante se stesso è un’esperienza tra il liberatorio e il nostalgico.

La personalità di Maradona è straripante fin dalle dediche del libro: un elenco di persone lungo due pagine, dalle figlie fino a Dio (altrove chiamato “il barbuto”), passando per “tutti i calciatori del mondo”, Fidel Castro, Caniggia, Ciro Ferrara e Michael Jordan, senza dimenticare “gli avvocati che hanno tirato fuori il mio amico dal carcere”. Già qui siamo in dadaismo puro, ma le pagine successive non sono da meno. Maradona racconta con candore del regalo più bello di tutta la sua vita, il primo pallone: “Io avevo tre anni e dormii tutta la notte abbracciandolo”. Del piccolo Diego è rimasto nell’immaginario collettivo quel sogno registrato dalla tv: giocare un Mondiale e vincerlo con l’Argentina. Rivedendo le immagini oggi è impossibile non pensare a parole come “destino”, ma in realtà è lo stesso Maradona a spiegare che “era lo stesso sogno di tutti i ragazzini, uguale a tutti gli altri”. Di diverso c’è che Diego ce l’ha fatta, ma anche qui il percorso non è stato né semplice né lineare. Nel 1978 resta fuori dalla Seleccion che poi vincerà la Coppa sotto lo sguardo ghiacciato dei militari, nell’1982 ha la grande occasione, è la star del torneo, ma anche questa volta, complice l’Italia di Bearzot e Gentile, le cose andranno male. “Quel che è sicuro – scrive Maradona – è che fui io a perderci più di tutti: nessuno stava rischiando quanto me, nessuno più di me aveva voglia che le cose andassero bene”.

Diego, pur nel suo sconfinato ego, nel libro mantiene una prospettiva di costante stupore, come se non si aspettasse mai di essere apprezzato. Quando il commissario tecnico Bilardo gli chiede di diventare capitano dell’Argentina piange di gioia, quando finalmente alza la sua Coppa del mondo nel 1986 non la lascia a nessun altro: “Volevo essere sicuro che fosse vera, che fosse nostra, degli argentini”. Gli anni di Barcellona sono turbolenti e contraddistinti dalla costante tensione con il presidente Nuñez, culminata in una incredibile protesta con lancio di trofei nella sede del club catalano. Poi è il Napoli, e la guerra di Diego, campione dei poveri e dei “terroni” contro il potere delle squadre del Nord. La storia è nota, compreso il triste epilogo. E come ogni epopea che si rispetti, anche quella di Maradona si fa a un certo punto cupa, e Diego incontra la camorra. “Riconosco – scrive – che era qualcosa di intrigante quel mondo, lo riconosco. Per gli argentini era una novità: la mafia!, e come sarà la mafia!? C’era qualcosa di affascinante in questo”. Il lato oscuro è sempre pronto a ghermire l’eroe, e Maradona in quella zona grigia ha camminato a lungo.

Un’ultima nota sul presente. Ai Mondiali Maradona ha tutto da perdere e in molti probabilmente lo stanno aspettando al varco. Ma se vincesse, anche alla Fifa, dove non lo hanno mai amato, non potrebbero non accorgersi che sarebbe il miglior modo di rinverdire la leggenda senza tempo del pallone. Un gioco il cui più grande interprete di tutti i tempi era uno, come scrive lo stesso Maradona, che si allenava tutti i giorni in garage. Una via di mezzo tra Don Chisciotte e Sancio Panza, ovviamente pazzo, che si batte contro i mulini a vento di quello che identifica come il Potere. Fantastico

01 maggio 2010

Milano Garibaldi Passante, una sera

L’estate, di nuovo mentitrice
Ha presentato il conto ai debitori
(ben prima che la cedola fosse scaduta)
Nel sangue di una strage di sandali innocenti
E stanche fodere, di colpo condannate
All’insipienza

Trevaglao, canta la musa del display della stazione
E il mio pensiero corre al facile esotismo
Di un sogno in portoghese smozzicato
Mentre succede che si sfiorino due donne
In un colloquio che scimmiotta un bacio
Dobbiamo ripensare – dice la bionda
Innanzitutto il concetto di per sempre

(aprile 2010)

07 aprile 2010

Harold Bloom e l'arte di leggere poesia

La funzione della poesia è “aiutarci a diventare liberi artefici di noi stessi”. Ne è convinto il grande critico statunitense Harold Bloom, lo sfacciato teorizzatore del Canone occidentale, che con il suo piccolo libro L’arte di leggere la poesia (Rizzoli) risponde, forse definitivamente forse no, a una delle domande più ricorrenti quando si parla dei componimenti poetici (ma spesso anche dell’arte in generale): a cosa serve. In realtà la premessa fondamentale è che l’arte, in quanto arte, non deve necessariamente "servire" a qualcosa, nel senso più pratico del termine. Ma l’analisi di Bloom, appassionato cultore dei versi, punta più in alto, come dice lo stesso titolo, ossia a valorizzare e a rendere più comprensibile il perché sia tuttora importante e necessario leggere poesia.

I libri di Harold Bloom e sono strabordanti di rimandi e connessioni, anche quando hanno una misura non certo monumentale come in questo caso. L'argomento poetico, però, ha anche il merito di sedare, almeno in parte, la furia metodologica del prominente studioso, che ha infarcito le sue opere precedenti di rabbiosi monologhi contro quelle che, secondo lui, sono le degenerazioni di genere piuttosto che razziali della critica accademica americana. Qui di certe prese di posizione si avverte solo una flebile eco, e il libro ne risente in positivo, come se la bellezza dell’argomento avesse anche la forza di rendere più sereno l’approccio di Bloom.

Entrando nel merito del testo, il critico fornisce subito una interessante definizione della poesia: "E’ essenzialmente linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e al contempo evocativa". Quindi Bloom passa all'analisi del "funzionamento" della composizione poetica: ecco allora fare la propria comparsa la memoria poetica, che permette il "riconoscimento", ossia il punto chiave del pensiero applicato alla letteratura. Con esempi presi pressoché in toto dalla poesia anglofona – sebbene Bloom abbia posto al centro del suo Canone, secondo solo a Shakespeare, il fiorentino Dante – il critico apre al lettore il terreno decisivo dell’allusività, sul cui campo di battaglia Bloom misura la maggiore o minore grandezza di un’opera in versi. Il passo successivo è poi quello di arrivare all’empireo dei poeti, dove regna sovrana l’inevitabilità. Dell’Alighieri non si parla mai direttamente in questo libro, ma lo schema logico costruito da Harold Bloom, in qualche modo, ricorda la geografia teologica della Commedia. Forse anche questa è una dimostrazione dell’uso dell’allusione.

Di carattere assolutamente straripante, Bloom non si esime certo dal giudicare i poeti, ed eccolo stroncare un mostro sacro come Edgar Allan Poe: "So recitare Poe a menadito, perché i suoi sono versi scontati, meccanici e ripetitivi. Quando conosco una grande poesia a memoria, accade perché l’opera è inevitabile, perfettamente realizzata e realizzabile". Un esempio, preso quasi a caso, dall’Ulisse di Tennyson: “Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza / più che nei giorni lontani moveva la terra e il cielo: / noi, s'è quello che s'è”. Cullati da queste mirabili parole, ecco che si profila una parola kantiana che pochi critici hanno il coraggio di scrivere oggi: il sublime. Che nasce, conclude Bloom in un crescendo di passione che ricorda l'entusiasmo con cui il professore de "L'attimo fuggente" declamava i versi di Walt Withman, dalla "stranezza" poetica che deriva "dal contatto con un tipo di coscienza diverso dal nostro" (Owen Barnfield) e spiana la strada alla conclusione: "La missione della grande poesia – scrive Bloom – è dunque di aiutarci a diventare liberi artefici di noi stessi. [...] L'arte di leggere la poesia è un autentico esercizio di accrescimento della coscienza, forse il più autentico fra tutti i modi salutari".

22 marzo 2010

Jules e Jim, appunti su un romanzo e un film

Jules e Jim: il più celebre triangolo amoroso del cinema d’autore o, almeno, il più delicato, quello che – grazie al cielo – esclude le situazioni da Attrazione fatale e prova anche a raccontare la più difficile tra le amicizie maschili: quella di due uomini che amano la stessa donna . Prima del film viene però il romanzo di Henry-Pierre Roché, pubblicato in Francia nel 1953 e passato sostanzialmente inosservato. L’autore debuttò sulla scena letteraria a 74 anni, pur con un libro che viene definito, ed è per molti versi, adolescenziale.

Il titolo avrebbe dovuto essere Un amitié, e questo è un segnale sul senso profondo della storia di Roché. Il romanzo ha una qualità fondamentale, soprattutto nella prima parte: quella della leggerezza, che la mano magica di Truffaut riesce a trasferire in tutto il film. La storia di Roché è autobiografica, con lui stesso nella parte del francese Jim, lo scrittore Franz Hessel in quella di Jules e la bellissima Helen Grund che nel romanzo diventa Kathe, poi trasformata in un più accessibile Catherine nel film. L’interesse però, più che sul gioco del romanzo a chiave, sta nella originale universalità della storia che racconta e nello stile – rapido, ironico, lieve – che lo scrittore ha scelto per raccontarla

In questo senso la prima parte del libro, quella in cui non c’è Kathe, è meravigliosamente felice e ricca di sensualità. Quello che colpisce è la non dissolutezza di Jules e Jim, pur nel loro sereno dongiovannismo. La seconda parte, pur introducendo il personaggio di Kathe che è memorabile, è artisticamente più debole, forse perché soffre del coinvolgimento autobiografico di Roché. Quella brillantezza di linguaggio e quelle frasi brevi che erano il tesoro della prima parte un po’ poi si perdono. Fino alla gestione, mirabile, del finale choc.

Truffaut scoprì il libro prima di diventare regista e se ne innamorò perché lo trovò “una dimostrazione dell’impossibilità di qualunque combinazione amorosa al di fuori della coppia”. Scrive il regista: “Leggendo Jules e Jim ebbi la sensazione di trovarmi di fronte un esempio di ciò che il cinema non riusciva mai a fare: mostrare due uomini che amano la stessa donna senza che il pubblico possa fare una scelta affettiva tra questi personaggi, tanto si trova costretto ad amarli tutti e tre nella stessa misura”. E per Truffaut il loro triangolo è “Un amore puro a tre”.

La sintassi di Roché, che è parte integrante della storia, si trasferisce nel film in scene brevi, intervallate da dissolvenze e altri escamotage “di passaggio” e, soprattutto nelle più belle riprese da nouvelle vague: Jules, Jim e Catherine che vanno per le strade di Parigi con lei vestita da uomo, i tre al mare o nella palestra di pugilato, oppure ancora nella meravigliosa scena di loro che corrono in bicicletta insieme all’ambiguo Albert. In questi momenti il film, come scrive Fernaldo Di Giammatteo nel Dizionario dei capolavori del cinema, “emana un acuto senso di libertà, che una mobilissima macchina da presa esprime cogliendo gioie, tristezze e piaceri dei protagonisti”. E anche i movimenti delle inquadrature, a volte bruschi e apparentemente amatoriali, sono la traduzione tecnica dei quella semplicità di vita che è la cifra migliore del racconto di Roché. Le musiche di Georges Delerue, quasi sempre felici, a volte più intimiste, contribuiscono all’atmosfera magica del film.

Truffaut voleva che Jules e Jim – opera che resta sostanzialmente fedele al romanzo di Roché, pur con piccole licenze e qualche semplificazione di trama e personaggi – fosse un film non “alla moda”. Il modello per il regista sono stati i “filmetti della MGM” della metà degli anni Quaranta, “film – spiega Truffaut – che avevano l’unico difetto di essere convenzionali, ma che rendevano bene l’idea di un grosso libro di ottocento pagine, con gli anni che passano e i capelli bianchi che fanno la loro comparsa”. Il libro di Roché non è lungo, ma – grazie a una sapiente gestione del tempo che, per esempio, liquida la Prima Guerra mondiale in poche righe – è lungo l’arco temporale che copre e, soprattutto, l’arco sentimentale che descrive.

Il film, vietato ai minori di 18 anni e in Italia quasi messo al bando, rappresentava anche una sfida alla morale comune del tempo. In questo senso le opere di Roché e Truffaut sono assolutamente speculari (seppur le immagini siano del tutto e totalmente pudiche, mentre le parole sono spesso più allusive ed esplicite): i tre protagonisti non sono immorali, sono dotati di una moralità diversa, ma non meno pura. La moralità dell’amicizia e dell’amore assoluto, sciolto. Potremmo dire che sono esempi viventi del migliore relativismo, unico antidoto - se ben usato - contro tutti gli integralismi.

Scrive ancora Truffaut: “La sceneggiatura di Jules e Jim non piaceva alla gente. I distributori dicevano: la moglie è una puttana, il marito sarà un personaggio grottesco, eccetera. La scommessa, per me, era che la moglie commuovesse (senza ricorrere a mezzi melodrammatici) e non fosse una puttana, e che il marito non fosse ridicolo. Mi piace tentare di arrivare a una cosa che non è chiara all’inizio”.

Un’ultima notazione sugli attori: giustamente celebrata Jeanne Moreau, che impersona il personaggio più complesso e difficile rendendo bene il senso di costante sofferenza che arde sotto l’apparente spensieratezza anarchica. “Le sue qualità di attrice e di donna – scrive il regista – rendevano Catherine reale sotto i nostri occhi, plausibile, folle, smodata, appassionata, ma soprattutto adorabile, cioè degna di adorazione”. Ma altrettanto notevoli sono le interpretazioni di Oskar Werner, protagonista anche di Fahrenheit 451 dello stesso Truffaut, che è un Jules tenero e ingenuo prima, attonito e provato poi, e quella di Henri Serre, attore debuttante scelto dal regista per la sua somiglianza con Roché, che è un Jim “alto, magro, dolce e onesto”. Nella mimica ridotta e un po’ rigida dei due uomini, che a volte fanno pensare al cinema muto, scorre la morale minima della storia, la sua capacità di parlare con delicatezza anche delle tematiche più ustionanti.

In sintesi: il libro di Roché è un romanzo importante, ma il film di Truffaut come opera d’arte lo supera, perché riesce a coglierne il meglio, rinunciando alle parti più faticose e a volte auto commiseranti del testo di Roché. Grandi libri quasi sempre diventano film deludenti. Libri in qualche modo minori, si pensi all’opera di Kubrick, a volte hanno la forza di diventare capolavori del cinema. Forse questo è il caso di Jules e Jim.

19 marzo 2010

Jonathan Safran Foer: io sto con gli animali

Dopo il successo mondiale di due romanzi come Ogni cosa è illuminata e Molto forte incredibilmente vicino Jonathan Safran Foer, 33enne star della letteratura americana, torna nelle librerie italiane con Se niente importa (Guanda), un saggio che risponde, anche con toni molto duri, alla domanda sul perché mangiamo gli animali. “Abbiamo intrapreso una guerra – scrive Safran Foer – o meglio abbiamo permesso che si intraprendesse una guerra contro tutti gli animali che mangiamo. Questa guerra è nuova e ha un nome: allevamento industriale”. Vegetariano a singhiozzo per molti anni, come racconta lui stesso, lo scrittore si è posto seriamente di fronte al problema del consumo di carne dopo la nascita dei suoi figli e, come ha spiegato a Kilgore nel corso di un incontro a Milano, si è concentrato “sulla differenza tra le cose che ci raccontano a proposito del cibo e la realtà”. Quello che colpisce, nel libro di Safran Foer, è l’assenza di posizioni ideologiche, spesso ricorrenti in libri che trattano per esempio l’argomento del vegetarianesimo, che alla fine risulta essere una scelta dettata dalla presa di coscienza delle pratiche terribili cui gli animali vengono sottoposti nel 99% degli allevamenti e dal costo ambientale elevatissimo correlato al sistema di produzione del cibo.

“La letteratura – ci ha detto Safran Foer – è utile per ricordarci le cose che, presi dalle circostanze della vita, spesso finiamo con il dimenticare. Il punto è che ci può incoraggiare ad agire meglio e ci può anche aiutare a sentire più profondamente le cose”. Ma, e su questo lo scrittore è categorico, Se niente importa non è un’opera d’arte (“L’arte dovrebbe essere solo fine a se stessa”), ma il resoconto di un’indagine lunga tre anni che vorrebbe sollevare il velo che nasconde gli orrori e le sofferenze che gli animali destinati a diventare cibo per le nostre tavole subiscono quotidianamente, e su vastissima scala. Sofferenze che, spiega Safran Foer, forse possiamo capire solo se le inseriamo in una storia che parla di noi. E quindi, chiediamo, la letteratura può in qualche modo salvare noi e gli animali? “Un libro non salva le vite – ha risposto lo scrittore – ma può contribuire a vasti cambiamenti culturali. Io credo che i libri possano cambiare i lettori, e spero che qualcuno leggendo il mio saggio possa cambiare idea sulla carne. Ma comunque non è questo il motivo per cui ho cominciato a scriverlo”.

Una delle parole ricorrenti nelle pagine di Safran Foer è vergogna (definita “il lavoro della memoria contro la dimenticanza”): “La vergogna – ci ha detto – è molto utile, e spesso ti impedisce di fare cose che non dovresti, ci aiuta a essere migliori. Alle volte avremmo davvero bisogno di vergognarci di più”. Dallo sterminio degli animali allo stermino degli esseri umani a volte il passo può sembrare breve e non sono mancati parallelismi con la Shoah, ma Jonathan Safran Foer non ama questo paragone: “Non ho problemi con chi lo vuole fare, ma non è appropriato: qui si parla di animali da allevamento e non di uomini. Non dobbiamo considerarli come esseri umani, ma semplicemente come animali”. Con il rispetto che si deve agli esseri viventi e senza dimenticare che il problema riguarda tutti noi, dato che gli allevamenti di animali contribuiscono al riscaldamento globale più di tutti i trasporti del mondo messi insieme.

Un’ultima notazione sul titolo italiano (in originale è Eating Animals): il riferimento è alla nonna dello scrittore che, anche nella fame più nera durante la guerra in Ucraina non mangiò la carne di maiale donatale da un contadino russo, perché non era kosher, neppure per salvarsi la vita. “Se niente importa – spiegò la donna al nipote – non c’è niente da salvare”.

02 marzo 2010

Per E.L.M.

Quando è successo, mi hai chiesto
Cosa hai pensato
Ti ho visto, gli ho risposto
In una luce di perfezione
C’era del sangue, volle sapere
Da qualche parte sì, ne sono quasi certo
Sulla tua testa, e su uno zigomo
Se non m’inganna il tempo
Cosa hai pensato
Forse a Parmenide o alla pioggia
No, eri una scimmia, questo ho pensato
Una scimmia esatta, sovrumana
Inaspettatamente carica d’esperienza
E ti è bastato
Penso di sì, ma era ormai notte fonda
Ed io ero stanco
E tu eri stanco

Sai, certe parole sono un tesoro
Non sprechiamo questa felicità

Quando è successo, mi hai chiesto
Cosa hai pensato
Alla morte, alla mia morte
Non ti capisco papà
Finché sei figlio sei come immortale
Tutti lo siamo fino a prova contraria
E’ vero, tu sei un ragazzo saggio
Ma tu nascevi e io incominciavo a morire
Naturalmente non era colpa tua
Era la divina indifferenza della biologia
O di Dio, sceglila tu la parola
Mi dispiace
Non dovrebbe, è stato tutto naturale
Anche le mie lacrime che,
Adesso lo capisco,
Erano più per me che per te

(2029)

02 febbraio 2010

Bolaño saggista, quasi un nuovo romanzo

Era stato annunciato da tempo e non ha tradito le attese: Tra parentesi, la raccolta di saggi, articoli e discorsi di Roberto Bolaño è un evento per tutti gli amanti del grande scrittore cileno, la cui morte a soli 50 anni nel 2003 resta una delle perdite più grandi per la letteratura mondiale. Pubblicato in Italia da Adelphi, forse a un prezzo di copertina un po’ troppo alto, il libro è una sorta di lato B dell’opera di fiction di Bolaño, che però insiste sullo stesso vinile, la stessa materia incandescente e magnetica che alimenta libri memorabili come La letteratura nazista in America o I detective selvaggi. Il curatore Ignacio Echevarrìa ha selezionato gli scritti, apparsi tra il 1998 e il 2003, e ha suddiviso il libro “in sei parti principali, precedute da un breve autoritratto e seguite da una delle ultime interviste concesse da Bolaño prima di morire”. “Tutti i testi qui raccolti – aggiunge Echevarrìa – furono scritti ‘tra parentesi’, ossia in margine all’incessante attività creatrice che inevitabilmente traspare da queste pagine” e che, con l’ultimo capolavoro 2666 ha confermato Bolaño “come un romanziere assolutamente fuori serie, decisivo”.

Per chi conosce e ama la voce di Bolaño, anche quella solo apparentemente minore dei racconti, i testi di Tra parentesi sono come un ritorno a casa. Solo lui infatti può scrivere a proposito della letteratura argentina contemporanea: “Ha tre linee di riferimento. Due sono note a tutti. La terza è segreta”. Ecco, questa via segreta, questa capacità di essere ossessivo e distante, sono la cifra dello scrittore cileno, per il quale la scrittura di qualità è “saper ficcare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso”. Tutte quelle sensazioni che la lettura (e lo stesso scrittore ci dice “sono molto più felice quando leggo che quando scrivo”) dei romanzi e dei racconti di Bolaño ci hanno suscitato in maniera evidente, ma spesso oscura, qui trovano una loro collocazione coerente, che aumenta nel lettore la sensazione di averla sempre avuta sotto gli occhi quella verità, senza essersene accorto, forse stordito dalla meraviglia della pagina letteraria.

La quantità delle suggestioni degli scritti di Bolaño è enorme, possiamo scegliere solo qualche citazione: “Ogni letteratura reca in sé l’esilio, non importa che lo scrittore sia stato costretto ad andarsene a vent’anni o non si sia mai mosso di casa. Probabilmente i primi esuli di cui si abbia notizia furono Adamo ed Eva”. Viene in mente la Bibbia, certo, ma anche Kafka, che raccontò il suo esilio interiore di impiegato in una grande impresa di assicurazioni e morì per non dover vivere l’esilio del corpo che avrebbe rappresentato Auschwitz. Borges, Neruda, Gombrowicz, Dick, Joyce: negli articoli di Bolaño sfilano i grandi nomi della letteratura universale insieme a molti autori sudamericani a noi pochissimo noti, ma attenzione, ci ricorda il cileno, il primo requisito di un capolavoro è passare inosservato. Dal labirinto verbale si esce solo per entrare in un altro, e via così. Se volessimo provare a trovare un punto fermo, in tutto questo mare di incertezze e dolore – che traspare dai molti riferimenti alla dittatura di Pinochet – forse potremmo scegliere la reazione di Bolaño dopo un incontro con il pur amato poeta Nicanor Parra: “La cosa migliore da fare è filarsela di corsa, la cosa migliore è cercare un’uscita da quel pozzo asimmetrico e tagliare la corda in silenzio, mentre i passi di Nicanor risuonano su e giù lungo il corridoio”. Leggere Bolaño, grosso modo, è una magnifica esperienza di questo tipo.

19 gennaio 2010

Isherwood e la meraviglia del niente

Un libro sul niente. Così Claudio Magris aveva definito, ovviamente in tono lusinghiero, L’educazione sentimentale di Flaubert. Lo stesso oggi possiamo dire sul romanzo del 1964 di Christopher Isherwood, che Adelphi ha ripubblicato in occasione dell’uscita del film di Tom Ford A Single Man, che al libro si ispira. Uscito per prima volta in Italia nel 2003, Un uomo solo racconta una giornata di George, maturo professore di letteratura in California nei primi anni Sessanta, ancora scosso dalla perdita del compagno Jim, ma comunque sempre alla ricerca di quelle emozioni che, in una parola, costituiscono la vita. Non c’è una trama nel senso classico del termine – e Adelphi parla infatti di un “romanzo per immagini” – e il nodo intorno a cui ruota la vicenda è, tecnicamente, un non-evento, poiché Jim è morto al di fuori dello spazio romanzesco e tutto ruota intorno ad altri non-eventi, come una possibile nuova relazione con un giovane studente, che resta, a quanto ne possiamo sapere, solo immaginata. Eppure, intorno a questo niente, Isherwood tratteggia un personaggio poi difficile da dimenticare, ricchissimo di sfumature e a suo modo scandaloso. Insomma, perfetto per il film di Tom Ford e per l’interpretazione di Colin Firth.

Il romanzo è molto fisico, e molto franco, e si regge su una sorta di reinterpretazione del monologo interiore, più spinto nella prima parte e più diluito nella seconda, ma sempre con il saldo controllo dell’autore che ci spinge nei meandri della personalità di George con mano leggera, apparentemente equidistante. “George è diverso – scrive Isherwood in una frase decisiva per capire il personaggio – perché, in un senso che non si sa bene come definire, ma che salta immediatamente agli occhi vedendolo nudo, non ha rinunciato”. Ecco, forse a volte anche il lettore non sa bene definire il romanzo, ma la sua forza emerge con chiarezza dietro le semplici descrizioni (per esempio delle autostrade di Los Angeles o della minaccia dei missili nucleari della Guerra Fredda) e la maestria di Isherwood è proprio quella di governare tutta questa materia come se niente fosse, con quella stessa naturalezza che si chiederebbe a un attore chiamato a impersonare un ruolo complesso.

George è a volte spietato, a volte cinico. Ma lo è soprattutto con se stesso, e questo lo rende un personaggio al di sopra della media e “Un uomo solo” è sì un romanzo dolente, ma anche di sorprendente, assurda, irrinunciabile vitalità. Viene da pensare che, in qualche modo, si avvicini alla forza dello scandaloso e magnifico Teatro di Sabbath di Philip Roth, pur mantenendo una distanza fondamentale nella misura dei personaggi: tanto il burattinaio ebreo era un satiro predatore e qualunquista (seppur immenso e shakespeariano), tanto il professore omosessuale è elegante e acculturato. Sotto di loro però, e qui si torna anche a Flaubert, brucia la vita, nella sua inesausta complessità. “Non posso parlare per gli altri – dice George al giovane Kenny – ma per quel che mi riguarda nulla mi ha fatto diventare saggio”. E quando il ragazzo gli chiede se l’esperienza è inutile, lui risponde: “Dico solo che uno non se ne fa niente. Ma se non ci prova nemmeno, se si limita a sapere che esiste, e che la si possiede… allora può essere meravigliosa…”. Il libro è tutto qui, scusate se è poco.