16 agosto 2007

Truman e gli alieni

Arrivano improvvisamente in città senza che sia chiara la loro provenienza, spesso sconvolgono la vita di diverse persone e dopo il loro passaggio le cose non saranno mai più come prima. Sono i bambini che compaiono in diversi, magistrali racconti di Truman Capote, scrittore la cui abilità straordinaria per la short-story è stata forse un po’ trascurata. Eppure la nuova antologia completa edita da Garzanti (“La forma delle cose”) è un libro di grandezza inusitata, che celebra degnamente il talento di uno scrittore visionario come pochi, maestro di stile ma anche di mistero, come molti dei suoi racconti stanno lì a dimostrare. Recensendo il libro Pietro Citati si è soffermato proprio sui bambini di Capote, che sembrano essere degli alieni caduti sulla Terra da chissà quale misterioso pianeta e, come insegna la migliore fantascienza, queste enigmatiche figure in fondo restano sempre inconoscibili, per quanto noi si tenti di stabilire un contatto con loro, se non altro scrivendo o leggendo le loro storie.

Appleseed, miss Bobbit, Miriam. Tre bambini che sconvolgono. I primi due una città, la terza la vita di un’anziana signora. Tutti e tre noi lettori. Hanno doti fuori dal comune (come esponenti di una civiltà extraterrestre) e fanno cose che non si riesce a spiegare: Appleseed conta tutti i nichelini contenuti in un grande boccale; miss Bobbit strega una comunità intera con i suoi modi di fare e la sua abilità di ballerina; Miriam appare e scompare nei modi e nei momenti più improbabili e liberarsi di lei è impossibile. Kilgore sa che nessun critico dotato di senno, e che tenga un minimo alla sua reputazione, si azzarderebbe mai a sostenere che Capote è un grande scrittore di fantascienza, ma forse, da questa nostra modesta tribuna, possiamo azzardarci a pensare che possa essere anche un maestro occulto della science-fiction. In fondo ciò che noi possiamo capire di questi bambini-alieni non è molto diverso da ciò che gli esploratori galattici di Arthur C. Clarke (che Kilgore da sempre preferisce ad Asimov, non ce ne voglia il caro basettone) sanno delle immense statue abbandonate da civiltà extraterrestri ormai scomparse. In fondo la solitudine di questi ragazzini, che Capote ha la magnetica intuizione di descrivere come se fossero adulti, è la stessa che coglie la sentinella galattica di Fredric Brown o l’impostore di Phil Dick... azzardato? Senza dubbio. Però, almeno per Kilgore, molto affascinante.

Non ce ne voglia l’ottimo Truman, che certamente non pensava a se stesso come a uno scrittore di fantascienza, genere da sempre – quanto ingiustamente! - relegato ai margini della grande cultura che invece Capote frequentava da legittimo protagonista. Ma noi che amiamo tanto racconti alti come “Il falco senza testa” di Capote, quanto avventurosi come “Il duello” di Brown, forse possiamo permetterci il paragone. Che si arricchisce di umori alieni se ai bambini di Truman aggiungiamo anche le straniate ragazze che popolano i suoi racconti con una dolcezza misteriosa che ci rimanda ad altri luoghi (altre voci... altre stanze), dove – proprio come su un altro pianeta – vigono regole diverse, che noi non sempre possiamo capire. Psicologia spicciola magari, che però nelle mani di Truman Capote diventa un oggetto splendente e unico, un po’ come l’uovo di cristallo di H. G. Wells. E così, chissà che il cerchio non si chiuda.

01 agosto 2007

Un'avventura (racconto ferroviario)

Il treno è moderno e silenzioso.
L’uomo, seduto in un posto vicino il finestrino, appare assorto nella lettura del quotidiano. Talvolta alza lo sguardo e scruta il paesaggio, con noncuranza forse troppo calcolata. L’uomo oggi sta viaggiando solo.

La donna è giovane e da questo viaggio si aspetta delle risposte.
Dietro alle domande c’è sempre una storia d’amore, lei lo sa, e la sua vita è sempre stata piena di domande. Indossa un top azzurro e ha con sé una valigia di stoffa semirigida. Siede lungo il corridoio e guarda le scarpe dei viaggiatori quando le passano accanto per raggiungere il vagone ristorante.

Il paesaggio è una finzione, pensa l’uomo.
La sua bellezza mutevole e gratuita è una promessa che non verrà mai mantenuta. Come se la vita ti facesse vedere tutto, salvo poi permetterti di raggiungere solo una minima parte di ciò che puoi desiderare. Questa oggi per l’uomo è la vera tristezza.

Vorrei tanto che tu. Ricordati di. Non hai capito che.
I pensieri della donna scivolano rapidi come gli alberi e le città mobili di là del vetro che lei non guarda. La tua assenza. Sei cambiato eppure. Parlami davvero, per una volta.

Una hostess in divisa arancione attraversa il corridoio spingendo il carrello del mini bar. L’uomo, come d’abitudine, rifiuta. Anche se affamato.
La donna resta a lungo in silenzio. Poi chiede un bicchiere di aranciata amara. Mentre lo porta alle labbra il treno ha un sobbalzo e qualche goccia cade sul pavimento, accanto ai sandali delle donna.
L’hostess continua a sorridere, quindi si allontana con l’accompagnamento del tintinnìo delle bottiglie.

A questo punto qualcosa cambia.

L’uomo chiude il giornale, che non ha finito di leggere, e fissa il finestrino.
La forza delle possibilità inespresse lo sta soggiogando e un giorno lo ucciderà. Sente che la sua vita, le sue scelte, i suoi attuali pensieri e desideri sono soltanto un riflesso di qualcos’altro.
Come se le circostanze lo avessero trascinato a valle senza chiedergli il consenso.
Guarda la corsa del paesaggio e desidera una cosa sola.

La donna si alza dal suo posto, inquieta.
Le risposte che sta cercando, ha capito, non sono certo al capolinea di questo viaggio.
Vorrebbe che il treno non si fermasse mai, che rimanesse in movimento per sempre, che le luci che illuminano il corridoio, questo luogo sospeso sul niente, rimanessero accese all’infinito.
Così avrebbe una giustificazione, così potrebbe dire a tutti non posso mi spiace sono in viaggio. E intanto le cose potrebbero mutare lontano da lei, protetta in questo microcosmo su due binari che corre a una velocità di vita che fuori non è più concepibile.

Come se tu. Come se tu. Come oggi, domani, ieri e forse per sempre.

Lei guarda l’uomo, alzandosi. E vede i suoi occhi sfumati da lacrime leggere. Lei guarda lo sconosciuto e sente il desiderio di abbracciarlo, di baciarlo, di sentire i suoi capelli tra le sue dita e il suo profumo sulla sua pelle.
Di quanti baci si ha bisogno in una vita?

Chi sei. Chiede l’uomo
Siamo qui. Dice la donna. Un corridoio.
Il treno è deserto. Dice l’uomo.
E se tu potessi. Rifaresti tutto?
Forse. Ma sarebbe banale.
Adesso. Qui. Io non ti conosco. Dice lei.
Adesso, qui. Dice lui.
Dimmi qualcosa. Dice lei.
Dove sei stata in tutto questo tempo.

Quando si baciano si baciano con furore ma lei, che lo sovrasta di alcuni centimetri, tiene sempre una mano sulla nuca dell’uomo. Con dolcezza.
Lui la cerca attraverso i vestiti, abbraccia le sue anche, segue il filo esile delle sue spalle, gioca con le lievi asimmetrie del suo sguardo.
Lei chiude gli occhi solo a intermittenza, cerca le mani dell’uomo e annusa con entusiasmo l’odore che i loro corpi cominciano a emanare.
Se in questo momento guardassero fuori dai finestrini si accorgerebbero, probabilmente senza troppo stupore, che il paesaggio è scomparso e dall’esterno filtra soltanto una luce bianca, come di neon.

Avevo un solo grande desiderio. Dice lui. Quella casa.
Volevi il prato. Dice lei.
Il prato.
E volevi me.
Volevo te.
Dove siamo. Dove stiamo andando. Dice lei.
Siamo qui. Adesso. Risponde lui.
La tua vita. Dice lei.
La mia vita. Avrei voluto che.
Lo so. Le cose erano troppo grandi.
Troppo grandi. Ma non chiedermelo.
Devo farlo. Devo chiedertelo.
Se il resto non ci fosse. Dice lui.
E se nessuno soffrisse. Dice lei.
Nessuno.
E il resto non ci fosse.
Lo sai. Dice lui.
Ho bisogno che tu lo dica. Dice lei.
Qui e ora. In questo corridoio.
Adesso.
Sì.
Ripetilo.
Un milione di volte sì. Dice l’uomo.

Non c’è una stazione alla fine di questo racconto.
Soltanto un uomo e una donna che camminano in silenzio su di un lungo marciapiede, in direzioni opposte.
Portano una valigia ciascuno.
E stanno lentamente sparendo nella foschia, come perduti nell’orizzonte.