10 gennaio 2007

L’anima nera del nuovo James Bond

Un prologo in bianco e nero sgranato che da solo vale quasi il prezzo del biglietto. Casino Royale, primo film del James Bond di Daniel Craig, si apre infatti con una serie di inquadrature che sono un omaggio alla storia del cinema: dai tagli vertiginosi dal basso cari a Orson Welles, al “correlativo oggettivo” (Montale mi perdoni) dello sguardo muto della macchina da presa di Hitchcock, alla violenza non mediata di Tarantino. Pochi minuti nei quali fa la sua comparsa un Bond fresco di nomina ad agente “doppio zero” che mette in mostra una carica di ambiguità e un’anima nera finora inedite per il personaggio. Straordinario.

E’ davvero una sorpresa piacevole di inizio anno questo Casino Royale, capace di uscire dal girone dei film di puro intrattenimento (cosa che peraltro fa molto bene) per collocarsi a pieno titolo – almeno a parere dell’aspirante cinefilo Kilgore – tra le opere più complesse e degne di nota. Craig è perfetto: il suo Bond getta a mare tutti gli aspetti da macchietta - non ce ne voglia l’ottimo Sean Connery che ha tutta la mia ammirazione, soprattutto da quando ha la barba – e costruisce un personaggio duro, violento, sfumato, meno gratuitamente ironico, perfino capace di disperazione. Come una traduzione dell’ideale hemingwayano del “Fare bene ogni cosa” – dalla guerra all’amore nell’idea dello scrittorone americano – il Bond di Craig sa uccidere a sangue freddo, catapultarsi nel vuoto, schivare un ostacolo improvviso in macchina a 200 all’ora. Ma sa anche che quando Vesper – a cui dice “Ti Amo”, questa sì che è una rivoluzione copernicana rispetto al machismo – piange sconvolta rannicchiata sotto la doccia, la cosa giusta da fare è mettersi seduto, in smoking, accanto a lei e scaldare un po’ la temperatura dell’acqua. Io ho impiegato cinque anni di matrimonio per capire che è esattamente così che ci si deve comportare in certe situazioni. Il Bond di Craig lo fa con una naturalezza – che depone ovviamente a favore della sceneggiatura – davvero meravigliosa.

Ma andiamo con ordine. Dopo l’eccellente attacco in bianco e nero ambientato a Praga, forse indiretto omaggio a Kafka, ecco che i titoli di testa sono un’altra bella sorpresa. Senza rinunciare al tradizionale stile cangiante e un po’ barocco che ha contraddistinto tutti i film di 007, questa volta l’esito è affascinante, grazie alla grafica computerizzata e alla eccezionale definizione. A questo punto siamo quasi in paradiso, ma non mancano le note meno liete: la lunga sequenza ambientata – a quanto ci dicono – in Madagascar è uno sfoggio di numeri da circo e balzi mozzafiato che però abbiamo già visto (non se ne può più della lotta sulle gru o sui ponteggi!!! Vi prego) e alla fine diventano quasi noiose. Stessa sensazione di latente deja vu anche quando l’azione si sposta alle Bahamas (dopo un breve ma intenso momento londinese tra Bond e il suo capo M): la bella che cavalca in riva al mare ha un retrogusto un po’ troppo anni 70. Ma è solo un attimo, da questo momento in avanti il film si riprende, seppur senza fretta, e ci offre le belle sequenze di Miami (bravo Claudio Santamaria, con l’espressione monocorde del terrorista), soprattutto quelle al museo e sulla pista dell’aeroporto.

Il vero clou del film è però ambientato in un Montenegro di sorprendente bellezza (sarà proprio così ci chiedevamo stupiti al cinema con gli amici Tom e Filo, ma qual è la capitale? Forse ha un futuro da meta di turismo internazionale...). La lunga scena del duello a poker tra Bond e il banchiere dei terroristi Le Chiffre, che piange lacrime di sangue, è cinema allo stato puro: magari senza elucubrazioni, ma di una concretezza filmica mirabile. Se a questo si aggiungono le ulteriori caratterizzazioni nuove del Bond di Daniel Craig (ammette – in qualche modo – di essere uno di quei disadattati che il governo assume per fare le cose peggiori, è tutt’altro che elegante di natura e tra i ricchi il suo corpo muscoloso tradisce un qualche imbarazzo sociale) ecco che il quadro si completa divenendo sempre più affascinante. E il contributo di Eva Green-Vesper è molto più importante di quello di un Giancarlo Giannini che ogni volta mi fa pensare all’Enel.

Mi sto dilungando troppo, devo stringere. Il film si alimenta dei continui tradimenti, oltre che di scene che esulano dal grigio terreno del verosimile (ma è tipico di un certo grande cinema farne a meno, vero Kusturica?) ma restano fedeli alla nuova filosofia di questo 007 capace di amare, di sopportare con dignità la tortura, perfino di covare il rancore di un innamorato tradito. Se il crollo del palazzo a Venezia è ridondante, la scena della morte di Vesper ha qualcosa di tristemente magico (mi fa pensare a Big Fish di Tim Burton). Il mondo esterno, intanto, è pieno di gente che tradisce, ma lo fa con ambiguità, con contorni grigi, con problemi di coscienza che, pure loro, sorprendono per l’ampiezza delle sfumature. La Guerra Fredda, che M in una memorabile battuta dice di rimpiangere, è proprio finita.

E siamo all’epilogo, quando il nostro Bond, ferito e disilluso, si avvicina pericolosamente al personaggio che abbiamo conosciuto nei film precedenti. Quando dice “My name is Bond, James Bond” una parte di me esulta per il gusto postmoderno della citazione pop, ma un’altra si chiede se non sia il caso di finire qui. Mi spiego: le cose migliori di questo nuovo 007 sono, a mio avviso, le novità rispetto al cliché, favorite anche dal fatto che qui si racconta una sorta di prequel rispetto alle note vicende del più celebre agente segreto. Da oggi il James Bond che tutti conoscevamo pare stia per tornare... Bond è vivo e lotta con noi, ma da quell’ultimo fotogramma, forse rassicurante per i fan tradizionali di 007, a me comincia a piacere meno.

2 commenti:

Mimi ha detto...

la recensione di tullio kezich era spietata. mi sa che mi tocca vederlo...
mimidef

Anonimo ha detto...

Well written article.