10 novembre 2006

Et alors monsieur Hemingway...

C’è stato un tempo in cui per me Hemingway era un dio”. La frase – citata a memoria – con cui Italo Calvino apriva il suo saggio del 1954 sullo scrittore di Oak Park (Hemingway e noi, leggetelo) mi ronza in testa da anni. Dal giorno in cui mi sono accorto che anche dentro di me qualcosa si era rotto nei confronti di Hemingway e che forse, accanto a libri straordinari come Fiesta e I quarantanove racconti, c’erano tante, forse troppe pagine nelle quali il romanziere sembrava fare il verso a se stesso, in un autocompiacimento un po’ stucchevole.

Però Hemingway è stato davvero un dio, “ed erano tempi buoni” scrive ancora Calvino come sempre a ragione, e per me ha rappresentato moltissimo. Ancora oggi non smetto di cercare le edizioni più rare dei suoi libri e mi tengo dei momenti privati per leggerlo: Avere e non avere, che mi sono portato in viaggio la scorsa estate, mi è parso tuttora straordinario, La fine di qualcosa è un racconto che ci parla dell’amore come poche altre storie sanno fare. Però Festa mobile, che sto rileggendo in questi giorni, sembra un libro di maniera, ai confini del pettegolezzo, animato da una spasmodica ricerca di ricreare quello stile selvaggio che aveva reso celebre il primo Hemingway. Eppure non riesco a smettere di leggerlo.

Sarà perché contiene una frase che da sola “vale il biglietto” (“Parigi è mia e tu sei mia” immagina di dire Ernest a una sconosciuta che entra nel bar in cui lui sta scrivendo: semplicemente straordinario), sarà perché alla fine leggere Hemingway per me è un po’ come tornare a casa: si ritrovano gli odori e i luoghi di un tempo che la distanza ci fa ricordare come lieto, anche se forse non lo era. Perché è come ritrovare un vecchio amico che si è perduto di vista, oppure come quando nei sogni incontro i miei nonni e loro mi raccontano qualcosa. Ecco, è questo il punto. Hemingway per me è stato come uno di famiglia che poi un giorno se ne è andato (o forse me ne sono andato io). Che lo voglia o meno, in qualche modo sarò sempre legato a lui. E quindi ben vengano anche le pagine non proprio indimenticabili di Festa mobile.

01 novembre 2006

Ritratto dell'artista, malinconico e provocatore

Manichini impiccati in piazza, spazi espositivi alla Biennale di Venezia venduti in subappalto, opere d’arte rubate ed esposte in altre gallerie, scoiattoli suicidi, un Hitler che supplica perdono. Ecco alcuni dei temi delle opere dell’artista padovano Maurizio Cattelan cui l’editore Electa ha dedicato un’agile e interessante monografia nella nuova collana “Supercontemporanea”.

Classe 1960, autodidatta e provocatore, Cattelan è oggi uno degli artisti più quotati sul mercato ed è stato chiamato a dirigere l’edizione 2006 della Biennale di Berlino. Nonostante i riconoscimenti però, spiega Francesco Manacorda nel saggio che accompagna la raccolta di opere di Cattelan, l’artista rimane “un Gianburrasca che si rifiuta ad aeternum di inserirsi nel mondo adulto”, oltre che un fiero contestatore dell’autorità. “Ogni padre, – scrive ancora Manacorda – modello di ruolo, buono o cattivo maestro non solo è ridicolizzato e simbolicamente ucciso ma deprivato grottescamente di ogni possibile autorevolezza, gravitas e posizione etica o simbolica”. La famosissima e controversa scultura che ritrae Giovanni Paolo II morente perché colpito da un meteorite (“La nona ora”) è il perfetto esempio di questa volontà di rifiutare modelli e sottomissioni, anche morali.

Il volume Electa presenta un’ampia selezione dei lavori più noti di Cattelan. E’ possibile partire da “Strategie”, nel quale l’artista riproduce un numero di Flash Art – la rivista di settore più importante in Italia – nel quale mette in copertina una propria opera. Si può poi proseguire con “Super noi”, raccolta di 50 suoi ritratti segnaletici realizzati da “collaboratori della polizia in seguito a descrizioni di diversi suoi amici”. Il tema del furto è ricorrente nel lavoro di Cattelan e viene esplicitato tanto nell’installazione “-157.000.000” , nella quale compare una cassaforte scassinata, quanto in “Another Fucking Ready-Made”, dissacrante allestimento realizzato con opere d’arte rubate da una galleria privata di Amsterdam.

Altro tema che attraversa tutta la carriera di Cattelan è quello della fuga: “Una domenica a Rivara” è in sostanza una serie di lenzuola annodate tra loro che sono calate da una finestra di un castello. “Se è possibile – scrive Manacorda – descrivere questo lavoro come una scultura, forse sarebbe più appropriato pensarlo come i resti di una performance di fuga dell’artista, dal mondo adulto ma anche dal mondo dell’arte e dalla mostra”. Una fuga che spesso è anche quella dalla vita. La straziante opera “Bidibibodibiboo” presenta il suicidio di uno scoiattolo, che si è appena sparato un colpo alla tempia nella riproduzione di una cucina che ricorda quella dell’infanzia dell’autore. “L’arte – spiega ancora Manacorda - per Cattelan diventa quindi il palcoscenico a volte comico e grottesco, altre volte oscuramente tragico in cui mettere in scena gli aspetti più irrisolti della fatica di esistere”.

L’arte di Cattelan non è mai facile, nonostante la verosimiglianza di molte sue sculture e il forte impatto emotivo che possono avere un Hitler genuflesso nell’atto (forse) di chiedere perdono o un ragazzino con le mani inchiodate da matite al banco di scuola. Intorno a Cattelan sono infuriate polemiche roventi, come quella per l’installazione in piazza XXIV Maggio a Milano di tre sculture di bambini impiccati o quella intorno alla già citata opera su Papa Wojtyla. Rimane il fatto però che confrontarsi anche con gli aspetti più aspri della poetica dell’artista veneto è un modo per aggiungere un altro tassello alla conoscenza del presente. Come scrive il curatore della collana di Electa, Francesco Bonami, “non abbiate paura dell’arte contemporanea, il peggio che vi può capitare è che non vi piaccia”.