26 dicembre 2006

Scrivi D'Ambrosio, leggi Carver

“Quando pensi a un racconto ti concentri necessariamente su uno spazio e su un tempo limitato, non costruisci un quadro troppo vasto, ma punti i riflettori su un momento particolare, sul momento di una crisi”. Charles D’Ambrosio, scrittore americano che debutta in Italia con la raccolta di racconti “Il museo dei pesci morti” edita da Minimim Fax, spiega così come nasce una short-story e, al tempo stesso, fornisce una chiave di lettura per i suoi lavori che parlano di persone con problemi mentali, che vivono ai margini dello scintillio dello star system, che attraversano con sguardo attonito i panorami vastissimi dell’America. E che, soprattutto, raccontano di uomini e donne che sembrano sempre sul punto di vivere una profonda crisi. La stessa che sembra attraversare anche la società statunitense: “I miei personaggi – mi ha spiegato D’Ambrosio, a Milano per incontrare il pubblico italiano nella libreria di charme ‘Sulla Strada’ – rappresentano degli aspetti dell’America, sono coinvolti nel panorama americano e hanno problemi che riguardano tutta la nostra società”.

Nato a Seattle e ora residente a Portland nell’Oregon, D’Ambrosio ha scritto finora due libri di racconti e una raccolta di saggi. Inevitabile il paragone con Raymond Carver, il grande scrittore che ha rilanciato la forma del racconto una trentina d’anno dopo i fasti di Ernest Hemingway. Con voce profonda e gentile D’Ambrosio ha ricostruito il quadro di quel periodo, in cui la short-story ha conosciuto in America una vera e propria rinascita: “Carver ha scritto solo racconti e ha pubblicato grandi raccolte in un breve lasso di tempo. Sulla sua scia sono usciti diversi libri di racconti – come quelli di Richard Ford o Tobias Wolff – che piacevano molto e avevano molto mercato. Negli Stati Uniti è il mercato che detta le leggi e oggi quella stagione è finita, i racconti non si vendono più”.

Se le vendite possono essere un problema, la critica ha invece accolto con grande favore i libri di D’Ambrosio, apprezzato da colleghi autorevoli come Michael Chabon e da esordienti di grido come la bella Marisha Pessl (come mi ha confidato lei stessa, che ho intervistato qualche settimana fa). Nei suoi racconti, che hanno il dono di raccogliere in poche pagine grandi temi, come la malattia, il rapporto padri-figli, la violenza domestica, si sente il lavoro oscuro dello scrittore (il famoso “iceberg” di Hemingway”) che riesce a selezionare l’essenzialità pur partendo da una vastissima base di sentimenti, nozioni, implicazioni sociali e morali. “Sono le storie che scrivo – ha spiegato D’Ambrosio – che mi dicono, andando avanti pagina dopo pagina, cosa fare e dove andare e con il mio linguaggio cerco di dare un contributo alla verità, perché il linguaggio è molto democratico, o almeno dovrebbe esserlo”.

Ne “Il museo dei pesci morti” c’è un bellissimo racconto – “Drummond e figlio” – nel quale D’Ambrosio racconta del rapporto tra un riparatore di vecchie macchine da scrivere e il suo problematico figlio. Tra dialoghi disarticolati, esplosioni di misticismo e piccole costanti attenzioni, la storia arriva al punto in cui il padre, apparentemente senza motivo, dice al ragazzo “Ti voglio bene”. “Una frase di questo tipo – ha spiegato D’Ambrosio – è molto difficile da dire tra due uomini, soprattutto in America. E per arrivare a quella frase ho dovuto costruire una giornata intera intorno a questo momento, creare le condizioni e le circostanze che giustifichino quell’ultima riga”. Spesso le conclusioni dei racconti di D’Ambrosio sono immagini che, dopo pagine che hanno indagato senza indulgenza nelle miserie umane, lasciano un senso si sollievo, di speranza. “Io credo nella speranza – ha detto lo scrittore – anche quando è inutile, c’è sempre qualcosa di buono”.

Un altro dei temi che ritornano con frequenza nelle storie di D’Ambrosio è la religione, spesso descritta come ossessione molto vicina al delirio. “Stiamo andando verso un periodo di follia religiosa – ha detto D’Ambrosio” – che coinvolge direttamente non solo il Medio Oriente ma anche gli Stati Uniti, dove abbiamo un presidente fondamentalista. Il fondamentalismo non è religione, ma aberrazione. E’ una perversione delle possibilità della religione. Il XX secolo ha visto la maggior parte delle stragi compiute da gente che voleva eliminare la religione, ora ci troviamo a fronteggiare il problema opposto, con gente che ha bisogno di fede e finisce con il rispondere a questo bisogno abbracciando una fede corrotta, fondamentalista”.

In un celebre passo de “La Peste” di Albert Camus il protagonista, il dottor Bernard Rieux, dice che “la peste si combatte con l’onestà”. Martina Testa, traduttrice e curatrice dell’edizione italiana del libro di D’Ambrosio, ha scritto che proprio l’onestà è ciò che più l’ha colpita nell’opera dello scrittore di Seattle. Forse un piccolo contributo alla lotta contro le numerose piaghe che affliggono il nostro presente può in qualche modo venire anche dai racconti di Charles D’Ambrosio.

13 dicembre 2006

Zona Franzen

C'è voluto un po' di tempo, ma alla fine i lettori che hanno amato "Le Correzioni" possono tornare ad assaporare lo stile di Jonathan Franzen in un nuovo libro, "Zona disagio", che Einaudi pubblica ora in Italia. Dopo avere scoperto i primi romanzi dello scrittore, averne apprezzato lo stile di saggista e - questo forse con un briciolo di esasperazione - aver scovato i suoi giudizi lusinghieri sulle copertine di diversi libri di altri autori, ecco che per i molti fan di Franzen si presenta una duplice opportunità: godere di un suo nuovo lavoro e, al tempo stesso, scoprire molto sulla personalità e la storia del romanziere di St. Louis. "Zona disagio" è infatti un libro autobiografico, che in pratica torna sul "luogo del delitto" de "Le correzioni", ossia la famiglia e l'enorme complessità dei rapporti al suo interno, sostituendo ai personaggi di finzione i genitori, i fratelli, gli amici, le fidanzate vere o presunte di Franzen.

Costruito per capitoli che potrebbero anche avere vita propria, e infatti quello intitolato "Il mio problema ornitologico" era già apparso sul New Yorker e in italiano su Internazionale, "Zona disagio" è una sorta di storia dell'educazione sentimentale del giovane Jonathan, che finisce però inevitabilmente, pur con le molte divagazioni evidentemente private, per diventare anche la fotografia di una società e di un periodo storico che l'autore pone come sfondo al proprio racconto.

Il talento di Franzen - che si conferma scrittore di inconsueta solidità - emerge soprattutto nelle pagine dedicate alla sua infanzia di bambino ultrasensibile, solitario e anche un po' disadattato. Con leggerezza ecco che pagina dopo pagina si tratteggia il profilo di un ragazzino che ha vissuto sulla sua pelle quanto sia difficile essere sempre il primo della classe e quanto spesso il mondo fuori di noi rappresenti una delusione. E quindi il ricorso a un mondo alternativo, fatto di tentativi di apparire diverso (a un certo punto racconta dei suoi sforzi per dire frequentemente "merda" con disinvoltura) e di grandi letture fantasy e passione smodata per i fumetti, in particolare i Peanuts di Charles Schulz. "Volevo vivere - scrive Franzen - nel mondo dei Peanuts, dove la rabbia era buffa e l'insicurezza adorabile". Ma poco oltre ecco la nota che contraddistingue la sua impietosa capacità di interpretare le dinamiche familiari: "Volevo che tutti i membri della mia famiglia andassero d'accordo e che nulla cambiasse; ma improvvisamente, dopo che Tom era scappato di casa, era come se tutti e cinque ci fossimo guardati intorno e ci fossimo chiesti perché avremmo dovuto stare insieme, senza trovare molte risposte plausibili".

Dall'ossessione del padre per la regolazione del termostato di casa sulla "Zona benessere" - da cui il titolo del libro - alle mancate avventure sentimentali dello studente di college; dalle bravate del gruppo goliardico chiamato I DIOTI alla nevrotica passione per il bird-watching, il libro di Franzen è un viaggio senza paraocchi nella complessità della vita, oltre che nella complessità delle persone, in primis dello stesso scrittore. Che come un novello Bartleby, fin dall'asilo, risponde agli inviti dei compagni esuberanti con un sorprendente: "Preferirei non giocare". Ma "Zona disagio" parla anche di dove sta andando l'America, con il progetto di Bush di una "società di proprietari" e gli allarmi di Al Gore sull'imminenza di una catastrofe ecologica. E racconta pure di come un rapporto tra madre e figlio, che sarà sempre difficile e frammentario, possa essere improvvisamente illuminato da una frase come questa: "Non mi piace - dice la donna mentre la visita periodica di Jonathan si stava concludendo - quando si passa l'ora legale mentre sei qui, perché vuol dire che ho un'ora di meno da passare con te". Indimenticabile.