20 ottobre 2006

L'indiano che parlava davvero di pace

Un rifiuto della logica che è alla base della teoria dello "scontro di civiltà" e un invito a riflettere sulla pluralità di appartenenze che caratterizzano ogni uomo: è questo ciò che il premio Nobel Amartya Sen tenta di fare con il suo ultimo saggio, "Identità e violenza", edito in Italia da Laterza. Indiano, rettore a Cambridge e docente ad Harvard, Sen rappresenta una delle voci più impegnate nel portare avanti un'interpretazione etica della globalizzazione, tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico. In questo libro, sempre appassionato e coinvolgente, lo studioso contesta l'idea che ciascun essere umano sia definito da un'identità esclusiva, sia essa la nazionalità piuttosto che l'appartenenza religiosa, e accusa tali interpretazioni di essere generatrici di odio e violenza.

"Molti dei conflitti e delle atrocità del mondo - scrive Sen - sono tenuti in piedi dall'illusione di un'identità univoca e senza possibilità di scelta". Ma, nota poco oltre il premio Nobel, "l'idea che le persone possano essere classificate unicamente sulla base della religione o della cultura è un'importante fonte di conflitto potenziale. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione unica può incendiare il mondo intero". Amartya Sen mette in luce nelle sue pagine la pluralità di identità che caratterizzano ogni individuo: religione e nazionalità certamente hanno un grande ruolo, ma vi sono anche numerose altre possibili categorizzazioni, legate per esempio alla classe sociale, al livello d'istruzione, all'orientamento sessuale, alla lingua parlata, alle opinioni politiche. E la lista potrebbe essere ancora lunga. Insomma, dice in sostanza Sen, l'identità non è una caratteristica intrinseca, ma è qualcosa che si può scegliere.

Sen cita espressamente, per confutarla, la teoria di Samuel Huntington: "La stessa domanda 'Esiste uno scontro fra civiltà' - si chiede l'economista indiano - si fonda sul presupposto che l'umanità possa essere classificata in via preferenziale in civiltà distinte e separate, e che le relazioni tra esseri umani differenti possano essere in qualche modo considerate, senza nuocere più di tanto alla comprensione, in termini di rapporti tra civiltà differenti". Questa visione, che Sen definisce "solitarista", ha come conseguenza pressoché automatica la violenza, ritenuta inevitabile e quasi fisiologicamente inserita nell'identità esclusiva. Ma, scrive Sen riferendosi a tutti gli esseri umani, "possiamo fare meglio di così".

A fronte dei sostenitori dell'inevitabile contrapposizione tra le appartenenze religiose Sen sostiene l'importanza dell'affermazione di identità multiple: "Le prospettive di pace nel mondo contemporaneo - scrive - possono nascere forse dal riconoscimento della natura plurale delle nostre affiliazioni". Una pluralità che è, come si diceva prima, caratteristica comune a tutti gli esseri umani. Per questo Sen si fa portavoce di una "identità globale", in grado di unire gli uomini e di promuovere concordia anziché dividerli e favorire la violenza. Una nuova affiliazione che "non impone di sostituire le nostre fedeltà nazionali e la nostre lealtà locali con un sentimento di appartenenza globale, che si riflette nell'operato di un gigantesco 'Stato mondiale'. Anzi, l'identità globale può iniziare a riscuotere quanto le è dovuto senza cancellare le altre fedeltà". Solo superando la logica della "miniaturizzazione degli esseri umani" e delle "piccole patrie" - conclude Sen - è possibile cambiare il futuro e uscire dalla logica dello scontro permanente. Un messaggio di rinnovato umanesimo che potrebbe aprire e la strada a scenari meno foschi per il XXI secolo.

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