26 luglio 2006

Dio la benedica, mister Vonnegut

"Non c'è motivo per cui il bene non possa trionfare sul male, se solo gli angeli si dessero un'organizzazione ispirata a quella della mafia". C'è tutto Kurt Vonnegut in questo aforisma posto in apertura del suo ultimo libro, "Un uomo senza patria", edito in Italia da Minimum Fax. Una raccolta di saggi e interventi del grande scrittore americano, autore dello straordinario "Mattatoio n.5" e di molti altri libri indimenticabili, nonché da decenni icona del dissenso rispetto alla politica ufficiale degli Stati Uniti. Un libro che, però, non è solo un ragionamento critico sulla politica di George W. Bush e, più in generale sullo stato del nostro mondo, ma è anche un tuffo nell'ironia implacabile di Vonnegut, che ripropone anche qui molti dei temi ricorrenti in tutta la sua opera (compresa una citazione, ai limiti del commovente, per il nostro beneamato Kilgore Trout!).

Ormai ottantaquattrenne, Vonnegut mantiene una lucidità sorprendente, oltre a uno stile coinvolgente. In dodici capitoli il libro spazia dai ragionamenti sulla letteratura ("Vi rendete conto - scrive Vonnegut - che tutta la grande letteratura parla di che fregatura sia la vita degli esseri umani?") a quelli su politica e religione ("Socialismo non è una parola malvagia più di quanto non lo sia cristianesimo. Fra i dettami del socialismo non c'erano Stalin e la sua polizia segreta e la chiusura delle chiese, così come fra i dettami del cristianesimo non c'era l'inquisizione spagnola"). Dalla crisi energetica ("Siamo tutti drogati di combustibili fossili, ma ci rifiutiamo di ammetterlo. E come tanti tossici che stanno per entrare in crisi d'astinenza, i capi dei nostri governi stanno commettendo crimini atroci pur di ottenere quel poco che rimane della sostanza da cui siamo dipendenti") al rapporto con il mondo musulmano ("Pensate che gli arabi siano fessi? Provate a fare una divisione in colonna coi numeri romani").

Vitale, indignato, incontenibile, Vonnegut non si limita a criticare ciò che ai suoi occhi non funziona nelle nostre società, ma propone anche - pur con un doveroso understatement - delle possibili soluzioni, come per esempio la scelta di essere umanisti. "Noi umanisti - scrive nell'ottavo capitolo - cerchiamo di comportarci nella maniera più dignitosa, leale e onesta possibile senza aspettarci nessuna ricompensa o punizione in una vita dopo la morte". Nonostante ciò, comunque, il pessimismo connota la sua visione del futuro, che gli appare irrimediabilmente compromesso dai comportamenti di generazioni che hanno operato senza mai pensare a chi sarebbe venuto dopo di loro.

La critica agli Stati Uniti di oggi è certamente il cuore politico del libro. E quando una signora gli scrive per chiedergli se valga davvero la pena di mettere al mondo un figlio nella nostra società, Vonnegut risponde: "Il bambino avrebbe la fortuna di nascere in una società in cui anche i poveri sono sovrappeso, ma la sfortuna di vivere in un Paese senza assistenza sanitaria nazionale e senza un'istruzione pubblica decente per la maggior parte dei cittadini, dove le iniezioni letali e la guerra sono forme di intrattenimento, e dove andare all'università costa un occhio e un rene". Niente male per il Paese guida dell'Occidente democratico.

"Kurt Vonnegut è una benedizione" ha scritto qualche anno fa la New York Times Book Review e per i lettori affezionati dello scrittore americano dalle pagine di "Un uomo senza patria" spunta, udite udite, anche una sorpresa: pare addirittura che il buon Kurt abbina in cantiere un nuovo romanzo. La trama? Degli alieni di 11 centimetri sbarcati al Waldorf Astoria, che mangiano i barboni e producono benzina e uranio al posto dei tradizionali escrementi. Non c'è che dire, Vonnegut è unico. E Kilgore vive in noi!!!

20 luglio 2006

Tenero è il XX secolo

Ne rimarranno tante di fotografie del Novecento. Tanti momenti, personaggi, suoni, storie, drammi, immagini che – ciascuna a modo proprio – restituiranno una delle mille facce del secolo più veloce della Storia. Una di queste è Tenera è la notte, uno dei due capolavori di Scott Fitzgerald, che ho tardivamente letto nelle scorse settimane. Un libro che si distingue per la perfezione dello stile – ma questo si sapeva – e che mette insieme alcuni topos del secolo scorso con una lucidità che forse è stata finora un poco sottovalutata.

Le prime straordinarie pagine d’ambientazione francese sono il racconto della nascita di un fenomeno novecentesco come il turismo di massa. Certo, nelle acque dorate dove Dick Diver fa bella mostra del proprio stile natatorio, forse sembra non esserci spazio per i forzati della riviera romagnola in ciabatte-occhiali avvolgenti-perizoma-settimana enigmistica-discoteca. Ma la storia, lo sappiamo, va più veloce perfino delle migliori menti, anche se poi ha bisogno di uno scrittore come Fitzgerald per potersi raccontare (e quindi conoscersi veramente).

Poi la fragilità delle relazioni amorose, le debolezze dei forti, il difficile confronto tra le classi sociali, l’assurda aderenza della psicanalisi – un’invenzione estemporanea e fasulla, capace però di dare una spiegazione a molti dei misteriosi comportamenti umani – alla realtà dei rapporti interpersonali. E ancora il progresso tecnologico (rappresentato dalle automobili su cui sfreccia, talvolta un po’ confuso, il complesso e splendido protagonista) e la fondamentale impossibilità di essere felici. Tutte cose, direte voi, che anche la letteratura degli altri secoli aveva cantato. Se in parte ciò è vero – ma in Dante e Balzac non troviamo né Freud né le spider – è anche indubitabile che questi fenomeni hanno assunto rilevanza di massa solo nel XX secolo, diventando vere per la prima volta per miliardi di persone.

Questo forse il nostro Fitzgerald non lo sapeva, ma Tenera è la notte in qualche modo già ce lo racconta. Perché certi grandi romanzi sanno più di ciò che dicono e, non mi stancherò mai di scriverlo, la grande letteratura è più vera della vita stessa.

08 luglio 2006

Una finale lunga una vita

Lo so. La finale dei Mondiali di calcio non c’entra (quasi) nulla con Kilgore Magazine. Però più si avvicina il fischio d’inizio di questa inattesa sfida tra l’Italia e i cugini transalpini, più sento crescere il fascino della partitissima. E mi rendo conto che non si tratta solo di una tenzone pallonara, ma di un fenomeno più vasto, che ha – in qualche modo, e per certi versi in maniera sorprendente – a che fare con il vasto e sfuggente concetto di cultura. Forte di questo assunto, sfacciatamente autoreferenziale, autorizzo i Mondiali a risedere a pieno titolo sulle pagine di Kilgore.

Personalmente questa è la terza finalissima degli Azzurri che vivo da spettatore protagonista – in totale è la nona, comprese due vissute in maniera incosciente per motivi anagrafici – e, scavando nei ricordi, trovo immagini straordinarie. L’11 luglio 1982, IL giorno per eccellenza del calcio italiano, sedevo in una sala sovraffollata ai bagni “Tropical” di Grottammare insieme a tutta la mia famiglia, ai miei ammiratissimi e inarrivabili cugini e a un numero imprecisato di altri clienti tra i quali un corposo gruppo di amici della Svizzera italiana. Ricordo il caldo, l’odore di pesce fritto, le sedie davanti al piccolo televisore. Ricordo di essermi sistemato nelle prime file, ma poi ho anche un’immagine della sala ripresa dal fondo, con la massa della gente che oscillava e gridava, probabilmente verso la fine della trionfale partita. Ricordo le ironie di chi, tra gli svizzeri, tifava Germania (lo stesso signore poi finì in manette negli anni di Tangentopoli – è vero! – ma questa è un’altra storia) e l’ultima inquadratura della Rai sullo stadio Santiago Bernabeu.

Sono tornato, vent’anni esatti più tardi, nello stesso ristorante. Cosa volete che vi dica, era cambiato, ma gli elementi fondamentali erano gli stessi. E con uno dei miei cugini, e rispettive signore, abbiamo mangiato seduti più o meno proprio in fondo alla sala dove abbiamo visto Dinone Zoff alzare la coppa. Non so cosa abbia pensato lui, io avvertivo una sottile inquietudine figlia del mio cattivo rapporto con il passato. Che ho provato a esorcizzare studiando la storia, devo confessare senza grande successo. Comunque, nel delirio di un post che mi esce dalla tastiera privo di ogni struttura, eccomi a dire che quella finale, LA finale, vissuta in una notte quasi lisergica nelle Marche dei primi anni Ottanta si è attaccata alle pareti di quella stanza ed è rimasta lì, e a me, come a Borges che scopre l’Aleph sui gradini di una casa di Buenos Aires, è capitato di ritrovarla.

Domani sera, quando l’arbitro fischierà l’inizio della partita, quando il Paese smetterà di respirare per un’ora e mezza, quando saremo quasi tutti ipnotizzati davanti all’idea meravigliosa di una FINALE, piuttosto che davanti a un evento puramente sportivo, io sarò tra quelli che sentiranno nella pelle d’oca che sale dai piedi fino ai capelli qualcosa di più del tifo per la nazionale. Perché dentro a certe partite passa anche la nostra vita, e talvolta l’evento sportivo è un occasione per riappropriarcene e permetterci di piantare un paletto. Che vent’anni dopo potremmo forse ritrovare sotto la sabbia.